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Hella Berent – Credito Masso Culo
Mostra personale dell’artista tedesca Hella Berent, che ci parla della sua visione del vulcano del golfo di Napoli, della sua energia e potenza, senza tralasciare la bellezza e la leggerezza della città di Napoli.
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Hella Berent
Credito – Masso – Culo
a cura di Nicoletta Di Blasi
13 ottobre 2018, ore 19:30
SAACI-GALLERY
Sabato Angiero
Via Padre Girolamo Russo 9
Saviano (NA)
Dopo la deflagrante eruzione del 1631, il Vesuvio entra in una nuova fase della sua storia: non
più le violente eruzioni del passato, ma un succedersi di piccole esplosioni, dovute al rimescolamento
del magma e alla fuoriuscita di gas.
Ancora nel XVIII secolo, con una passeggiata di circa cinque ore da Napoli, si poteva assistere
allo spettacolo delle esplosioni, spettacolo che diventava ancora più impressionante durante la notte:
il magma riluceva rosso e incandescente, traboccando dal bordo del cratere.
Nel 1787 Goethe più volte ascese al Vesuvio, per osservare l’onnipotenza del vulcano.
Il 6 marzo vi si recò con il pittore Wilhelm Tischbein:
“Tuttochè mal volontieri, pure per dovere di amico, Tischbein mi ha voluto oggi
accompagnare sul Vesuvio. A lui, artista distinto, il quale di continuo si studia, si affatica
a riprodurre le forme umane, quelle degli animali, sotto il migliore aspetto, che riesce
colla squisitezza del suo gusto ad abbellire gli oggetti i meno belli, non poteva guari
sorridere la vista di quella mole cupa, terribile, la quale di continuo si
distrugge, si consuma, e che ha dichiarata la guerra ad ogni bellezza di
natura e dell’arte. […] Pervenimmo […] sulla pianura, dove sorge il cono del monte, a
tramontana delle rovine del Somma.
Gettai di là uno sguardo sui dintorni del monte a ponente, il quale dissipò, quanto
avrebbe potuto fare un bagno fresco, il calore, la stanchezza della salita, e presimo
allora a girare il cono che romoreggia di continuo, eruttando sassi e ceneri;
e tenendoci a distanza di quello, per quanto lo spazio lo consentiva, era
spettacolo propriamente grandioso. Si udiva dapprima quasi un cupo
romoreggiare di tuono, nelle profondità dell’abisso; quindi si scorgevano a
migliaia sassi di varie dimensioni lanciati per aria, circondati da una nuvola
di ceneri. La maggiore parte di quei sassi ripiombavano nell’abbisso; gli
altri rotolando da ogni parte, lungo le pareti esteriori del cono,
producevano un fracasso d’inferno; i più pesanti ripiombando nell’abisso,
producevano un tonfo; i più piccoli facevano un rumore più acuto, e le
ceneri crepitavano. Tutti questi fenomeni si succedevano ad intervalli regolati, dei
quali, con attenzione, si sarebbe potuto benissimo misurare la durata.
[…] pensai se non fosse possibile, approffittando dell’intervallo fra due eruzioni, lo
arrivare in cima al cono, presso il cratere, scendendone parimenti fra una eruzione e
l’altra.
[…] Continuavano attorno a noi a schioppettare i lapilli, a crepitare le
ceneri, alloraquando l’ardito giovane mi trasse su per l’infuocata pendice.
Ci trovammo allora sul margine dell’immensa voragine; un’arietta
allontanava da noi il fumo, che usciva da innumerevoli fessure, e ci
impediva di scorgere il fondo dell’abisso. In un intervallo di riposo del volcano,
potemmo scorgere quà e là le pareti sassose della voragine. […].
La lava più antica era già ricoperta di cenere, ed appianata; quella più recente, e
specialmente se aveva avuto un corso lento, offeriva un aspetto strano; imperocché,
dopo avere trascinati seco per un certo tratto i massi caduti sulla sua superficie, questi
avevano finito per fermarsi, accumulandosi gli uni contro gli altri, e consumati per
così dire dall’ardore di quel torrente di fuoco, erano diventati simili a scorie
di ferro. Tramezzo a tutte queste materie trasformate, si scorgevano pure
massi di maggiore dimensione, i quali si sarebbero potuto dire estratti da
una cava aperta di recente, e le nostre guide pretendevano essere quest’ultimi pezzi
di lava antica, che di quando in quando la voragine caccia fuori. […]
Ancora il 9 marzo Goethe ricorda:
“[…] Il tempo si è guastato; varia ad ogni momento, è cominciata la primavera, e
verranno giornate di pioggia. La vetta del Vesuvio non è stata più scoperta come
nel giorno in cui sono salito lassù. Nelle ultime notti si viddero di quando in
quando fiamme colà, ora il vulcano bolle all’interno, e si aspetta
un’eruzione più forte.
Le burrasche di questi giorni ci hanno fatto vedere il mare nella sua imponenza, e si
poteva studiare ed ammirare la forza delle onde; la natura si è pure il solo libro che offra
ammaestramenti sublimi ad ogni pagina. Per contro il teatro non mi reca più
soddisfazione. […]”
Il 20 marzo Goethe decide di ascendere per la terza volta al Vesuvio:
“L’annuncio di una recente eruzione di lava, la quale invisibile da Napoli
scendeva verso Ottaiano, m’indusse a portarmi una terza volta al Vesuvio.
[…] Giunti in alto […] ci avviammo coraggiosamente in direzione di un fumo denso, il
quale sboccava dal monte, al basso del cono, dove si apre il cratere; scendemmo quindi
alquanto sul fianco della pendice, finché finalmente, vedemmo a cielo aperto
sboccare la lava da quei cupi vortici, di denso fumo.
[…] Il torrente di lava era ristretto, non guari più largo forse, di dieci piedi; il modo però
col quale correva lentamente, formando una superficie abbastanza piana ed uguale; era
degno di essere osservato, imperocché nel mentre seguendo il suo corso si va
raffreddando sui lati ed alla superficie, forma una specie di canale, il quale si va di
continuo rialzando per la materia fusa, la quale corre al dissotto, e che
rigetta scorie alla superficie a diritta ed a sinistra, in guisa che formano
queste quasi due argini, fra cui il fiume di fuoco continua la sua strada, né
più né meno che il canale di un molino. Camminammo in cima ad uno di quegli
argini, e le scorie rotolavano giù per i fianchi di quello sotto ai nostri piedi, e da alcuni
vani del canale potemmo osservare d’alto in basso il corso della lava al dissotto della
crosta già quasi solidificata del torrente infuocato.
Il sole era limpidissimo, e menomava lo splendore del fuoco, e poco fumo
leggiero si sollevava nell’atmosfera purissima. Avevo desiderio di
accostarmi al punto dove la lava sbocca dal monte; […]
La mia guida fu la prima a volgersi addietro, e mi trascinò seco, fuori di
quell’atmosfera d’inferno. […]
Nel mio ritorno mi recarono sollievo e riposo un magnifico tramonto ed una sera
stupenda; però sentivo, quasi vaneggiando, la grandezza del contrasto a cui mi trovavo
in presenza. Il bello qui si trova accanto all’orribile; l’orribile accanto al bello;
e tanto l’uno quanto l’altro eccitano l’immaginazione, esercitano un fascino, e per certo
che i Napoletani sarebbero popolo diverso se non si trovassero cacciati a questo modo,
fra Iddio e Satana”.
Johann Wolfgang von Goethe, Ricordi di viaggio in Italia nel 1786-87, Parte II, Napoli (trad.
dal tedesco di Augusto Nomis di Cossilla, 1875)
Parecchi anni dopo, il 16 giugno 1840, anche la compositrice amburghese Fanny MendelssohnBartholdy,
sorella del più celebre Felix, ascendeva al Vesuvio. Nel suo Reise-Album, un album
musicale illustrato, che restituiva la memoria del viaggio compiuto con il marito in Italia, un Leid
per pianoforte, in forma tripartita, ricorda la fatica “inesauribile” della salita, sullo sfondo di
un’immagine del Vesuvio, visto da Castellamare di Stabia, disegnato dal marito Wilhelm Hensel.
Fanny ricorda:
“Ci avvicinammo al cratere con una indescrivibile curio ristà, e con trepidazione ed
orrore guardammo dentro. Che baraonda diabolica! Puzzo di zolfo e colori dei
più incantevoli, come non si vedono da nessun’altra parte nella natura:
verde, giallo, rosso, azzurro, un insieme di sole tonalità velenose, nel
fondo del calderone un inquietante grigio cenere, un fumo, ora più
sottile ora più denso, che si sprigionava da tutte le crepe, avvolgendo
tutto, e tuttavia tutto lasciando intravedere, e ad ogni passo la vista cambiava e lo
scenario si faceva raccapricciante”
(Italienisches Tagebüch, a cura di E. Weissweiler, Darmstadt 1985)
Nel 1860, lo storico tedesco Ferdinando Gregorovius arrivò a Napoli, e decise di ascendere
all’inosservato’ Monte Somma, piuttosto che al celeberrimo Vesuvio. Ricorda:
“tutto il pietrame intorno è echeggiante, perché bruciato. Se si
percuotono questi tufi grigio blu con un ferro o con un bastone essi
emettono un suono quasi metallico […] In alto la montagna diventava
sempre più selvaggi, cenere e lava si facevano sempre più abbondanti; la salita
diventava più faticosa, ma anche sempre più bello il panorama”
(Passeggiate in Campania e in Puglia, ed. Roma 1966).
E, per lasciare l’area tedesca, come non ricordare le parole di Herman Melville, che nel suo terzo
viaggio in Europa, nel febbraio 1856, arrivò in vapore da Messina a Napoli e nello stesso giorno salì
a cavallo sul Vesuvio. Ne restituì un’immagine vividissima in una prosa fulminea:
“il cratere attuale è come una vecchia miniera abbandonata – l’uomo che
brucia – rosso e giallo. Tuoneggiante. Boati. Una lingua di fuoco.
Sono sceso nel cratere. Liquerizia congelata. Sono sceso giù in gran
fretta. Crepuscolo. Cavalcata nel buio. All’Annunziata trovato un
vetturino per Napoli. Una corsa nel freddo senza soprabito, Di ritorno all’Hotel
a mezzanotte. La strada e la campagna erano silenziose. Un sobborgo, Cena e a
letto”.
(Diario italiano, ed. Milano 1955).
C’è da chiedersi, a ripercorrere randomicamente queste memorie di viaggiatori tedeschi in Italia,
quale sia il viaggio di Hella Berent, quale magma, quale fuoco, quali colori vi siano.
Ancora, quale pressione, quale bolla, quale fuga, quale potenza, e insieme quale paesaggio, quale
montagna, e quale visione.
La linea di Hella Brent è turbolenta e sbuffante, inquieta, liquida, netta, decisa, in fuga appunto.
I colori parimenti sgusciano via acidi, e densi, e affocati, e pallidi e vividi, e, nello stesso tempo,
leggeri: è uomo che brucia, rosso e giallo, è troneggiare, boato, lingua di fuoco, liquerizia congelata,
crepuscolo, cavalcata nel buio. È pietrame echeggiante, bruciato, è tufo grigio blu che emette un
suono quasi metallico. È baraonda diabolica, puzzo di zolfo e colori incantevoli: verde, giallo, rosso,
azzurro, un insieme di tonalità velenose, e, nel fondo del calderone, un inquietante grigio cenere, un
fumo, ora più sottile ora più denso, che si sprigiona da tutte le crepe, avvolgendo tutto.
È atmosfera d’inferno, è sole limpidissimo, è splendore del fuoco, è atmosfera purissima, è lava che
sbocca. È mole cupa, terribile che si distrugge, si consuma, e che ha dichiarato guerra ad ogni bellezza
della natura e dell’arte.
È rumore continuo, eruzione di sassi e ceneri; è grandioso e cupo rumoreggiare di tuono, è profondità
dell’abisso; è schioppettare di lapilli, è crepitare di ceneri, è ardore di torrente di fuoco, è scorie di
ferro, è fiamme, è bollore, è cupo vortice, è fumo denso.
E i massi. I massi si scorgono a migliaia, di varie dimensioni: lanciati per aria, circondati da una
nuvola di ceneri. La maggiore parte ripiombati nell’abisso; gli altri rotolati da ogni parte, con fracasso
d’inferno; i più pesanti ripiombati nell’abisso, con un tonfo; i più piccoli dal rumore più acuto.
01.10.18
Nicoletta Di Blasi
Credito – Masso – Culo
a cura di Nicoletta Di Blasi
13 ottobre 2018, ore 19:30
SAACI-GALLERY
Sabato Angiero
Via Padre Girolamo Russo 9
Saviano (NA)
Dopo la deflagrante eruzione del 1631, il Vesuvio entra in una nuova fase della sua storia: non
più le violente eruzioni del passato, ma un succedersi di piccole esplosioni, dovute al rimescolamento
del magma e alla fuoriuscita di gas.
Ancora nel XVIII secolo, con una passeggiata di circa cinque ore da Napoli, si poteva assistere
allo spettacolo delle esplosioni, spettacolo che diventava ancora più impressionante durante la notte:
il magma riluceva rosso e incandescente, traboccando dal bordo del cratere.
Nel 1787 Goethe più volte ascese al Vesuvio, per osservare l’onnipotenza del vulcano.
Il 6 marzo vi si recò con il pittore Wilhelm Tischbein:
“Tuttochè mal volontieri, pure per dovere di amico, Tischbein mi ha voluto oggi
accompagnare sul Vesuvio. A lui, artista distinto, il quale di continuo si studia, si affatica
a riprodurre le forme umane, quelle degli animali, sotto il migliore aspetto, che riesce
colla squisitezza del suo gusto ad abbellire gli oggetti i meno belli, non poteva guari
sorridere la vista di quella mole cupa, terribile, la quale di continuo si
distrugge, si consuma, e che ha dichiarata la guerra ad ogni bellezza di
natura e dell’arte. […] Pervenimmo […] sulla pianura, dove sorge il cono del monte, a
tramontana delle rovine del Somma.
Gettai di là uno sguardo sui dintorni del monte a ponente, il quale dissipò, quanto
avrebbe potuto fare un bagno fresco, il calore, la stanchezza della salita, e presimo
allora a girare il cono che romoreggia di continuo, eruttando sassi e ceneri;
e tenendoci a distanza di quello, per quanto lo spazio lo consentiva, era
spettacolo propriamente grandioso. Si udiva dapprima quasi un cupo
romoreggiare di tuono, nelle profondità dell’abisso; quindi si scorgevano a
migliaia sassi di varie dimensioni lanciati per aria, circondati da una nuvola
di ceneri. La maggiore parte di quei sassi ripiombavano nell’abbisso; gli
altri rotolando da ogni parte, lungo le pareti esteriori del cono,
producevano un fracasso d’inferno; i più pesanti ripiombando nell’abisso,
producevano un tonfo; i più piccoli facevano un rumore più acuto, e le
ceneri crepitavano. Tutti questi fenomeni si succedevano ad intervalli regolati, dei
quali, con attenzione, si sarebbe potuto benissimo misurare la durata.
[…] pensai se non fosse possibile, approffittando dell’intervallo fra due eruzioni, lo
arrivare in cima al cono, presso il cratere, scendendone parimenti fra una eruzione e
l’altra.
[…] Continuavano attorno a noi a schioppettare i lapilli, a crepitare le
ceneri, alloraquando l’ardito giovane mi trasse su per l’infuocata pendice.
Ci trovammo allora sul margine dell’immensa voragine; un’arietta
allontanava da noi il fumo, che usciva da innumerevoli fessure, e ci
impediva di scorgere il fondo dell’abisso. In un intervallo di riposo del volcano,
potemmo scorgere quà e là le pareti sassose della voragine. […].
La lava più antica era già ricoperta di cenere, ed appianata; quella più recente, e
specialmente se aveva avuto un corso lento, offeriva un aspetto strano; imperocché,
dopo avere trascinati seco per un certo tratto i massi caduti sulla sua superficie, questi
avevano finito per fermarsi, accumulandosi gli uni contro gli altri, e consumati per
così dire dall’ardore di quel torrente di fuoco, erano diventati simili a scorie
di ferro. Tramezzo a tutte queste materie trasformate, si scorgevano pure
massi di maggiore dimensione, i quali si sarebbero potuto dire estratti da
una cava aperta di recente, e le nostre guide pretendevano essere quest’ultimi pezzi
di lava antica, che di quando in quando la voragine caccia fuori. […]
Ancora il 9 marzo Goethe ricorda:
“[…] Il tempo si è guastato; varia ad ogni momento, è cominciata la primavera, e
verranno giornate di pioggia. La vetta del Vesuvio non è stata più scoperta come
nel giorno in cui sono salito lassù. Nelle ultime notti si viddero di quando in
quando fiamme colà, ora il vulcano bolle all’interno, e si aspetta
un’eruzione più forte.
Le burrasche di questi giorni ci hanno fatto vedere il mare nella sua imponenza, e si
poteva studiare ed ammirare la forza delle onde; la natura si è pure il solo libro che offra
ammaestramenti sublimi ad ogni pagina. Per contro il teatro non mi reca più
soddisfazione. […]”
Il 20 marzo Goethe decide di ascendere per la terza volta al Vesuvio:
“L’annuncio di una recente eruzione di lava, la quale invisibile da Napoli
scendeva verso Ottaiano, m’indusse a portarmi una terza volta al Vesuvio.
[…] Giunti in alto […] ci avviammo coraggiosamente in direzione di un fumo denso, il
quale sboccava dal monte, al basso del cono, dove si apre il cratere; scendemmo quindi
alquanto sul fianco della pendice, finché finalmente, vedemmo a cielo aperto
sboccare la lava da quei cupi vortici, di denso fumo.
[…] Il torrente di lava era ristretto, non guari più largo forse, di dieci piedi; il modo però
col quale correva lentamente, formando una superficie abbastanza piana ed uguale; era
degno di essere osservato, imperocché nel mentre seguendo il suo corso si va
raffreddando sui lati ed alla superficie, forma una specie di canale, il quale si va di
continuo rialzando per la materia fusa, la quale corre al dissotto, e che
rigetta scorie alla superficie a diritta ed a sinistra, in guisa che formano
queste quasi due argini, fra cui il fiume di fuoco continua la sua strada, né
più né meno che il canale di un molino. Camminammo in cima ad uno di quegli
argini, e le scorie rotolavano giù per i fianchi di quello sotto ai nostri piedi, e da alcuni
vani del canale potemmo osservare d’alto in basso il corso della lava al dissotto della
crosta già quasi solidificata del torrente infuocato.
Il sole era limpidissimo, e menomava lo splendore del fuoco, e poco fumo
leggiero si sollevava nell’atmosfera purissima. Avevo desiderio di
accostarmi al punto dove la lava sbocca dal monte; […]
La mia guida fu la prima a volgersi addietro, e mi trascinò seco, fuori di
quell’atmosfera d’inferno. […]
Nel mio ritorno mi recarono sollievo e riposo un magnifico tramonto ed una sera
stupenda; però sentivo, quasi vaneggiando, la grandezza del contrasto a cui mi trovavo
in presenza. Il bello qui si trova accanto all’orribile; l’orribile accanto al bello;
e tanto l’uno quanto l’altro eccitano l’immaginazione, esercitano un fascino, e per certo
che i Napoletani sarebbero popolo diverso se non si trovassero cacciati a questo modo,
fra Iddio e Satana”.
Johann Wolfgang von Goethe, Ricordi di viaggio in Italia nel 1786-87, Parte II, Napoli (trad.
dal tedesco di Augusto Nomis di Cossilla, 1875)
Parecchi anni dopo, il 16 giugno 1840, anche la compositrice amburghese Fanny MendelssohnBartholdy,
sorella del più celebre Felix, ascendeva al Vesuvio. Nel suo Reise-Album, un album
musicale illustrato, che restituiva la memoria del viaggio compiuto con il marito in Italia, un Leid
per pianoforte, in forma tripartita, ricorda la fatica “inesauribile” della salita, sullo sfondo di
un’immagine del Vesuvio, visto da Castellamare di Stabia, disegnato dal marito Wilhelm Hensel.
Fanny ricorda:
“Ci avvicinammo al cratere con una indescrivibile curio ristà, e con trepidazione ed
orrore guardammo dentro. Che baraonda diabolica! Puzzo di zolfo e colori dei
più incantevoli, come non si vedono da nessun’altra parte nella natura:
verde, giallo, rosso, azzurro, un insieme di sole tonalità velenose, nel
fondo del calderone un inquietante grigio cenere, un fumo, ora più
sottile ora più denso, che si sprigionava da tutte le crepe, avvolgendo
tutto, e tuttavia tutto lasciando intravedere, e ad ogni passo la vista cambiava e lo
scenario si faceva raccapricciante”
(Italienisches Tagebüch, a cura di E. Weissweiler, Darmstadt 1985)
Nel 1860, lo storico tedesco Ferdinando Gregorovius arrivò a Napoli, e decise di ascendere
all’inosservato’ Monte Somma, piuttosto che al celeberrimo Vesuvio. Ricorda:
“tutto il pietrame intorno è echeggiante, perché bruciato. Se si
percuotono questi tufi grigio blu con un ferro o con un bastone essi
emettono un suono quasi metallico […] In alto la montagna diventava
sempre più selvaggi, cenere e lava si facevano sempre più abbondanti; la salita
diventava più faticosa, ma anche sempre più bello il panorama”
(Passeggiate in Campania e in Puglia, ed. Roma 1966).
E, per lasciare l’area tedesca, come non ricordare le parole di Herman Melville, che nel suo terzo
viaggio in Europa, nel febbraio 1856, arrivò in vapore da Messina a Napoli e nello stesso giorno salì
a cavallo sul Vesuvio. Ne restituì un’immagine vividissima in una prosa fulminea:
“il cratere attuale è come una vecchia miniera abbandonata – l’uomo che
brucia – rosso e giallo. Tuoneggiante. Boati. Una lingua di fuoco.
Sono sceso nel cratere. Liquerizia congelata. Sono sceso giù in gran
fretta. Crepuscolo. Cavalcata nel buio. All’Annunziata trovato un
vetturino per Napoli. Una corsa nel freddo senza soprabito, Di ritorno all’Hotel
a mezzanotte. La strada e la campagna erano silenziose. Un sobborgo, Cena e a
letto”.
(Diario italiano, ed. Milano 1955).
C’è da chiedersi, a ripercorrere randomicamente queste memorie di viaggiatori tedeschi in Italia,
quale sia il viaggio di Hella Berent, quale magma, quale fuoco, quali colori vi siano.
Ancora, quale pressione, quale bolla, quale fuga, quale potenza, e insieme quale paesaggio, quale
montagna, e quale visione.
La linea di Hella Brent è turbolenta e sbuffante, inquieta, liquida, netta, decisa, in fuga appunto.
I colori parimenti sgusciano via acidi, e densi, e affocati, e pallidi e vividi, e, nello stesso tempo,
leggeri: è uomo che brucia, rosso e giallo, è troneggiare, boato, lingua di fuoco, liquerizia congelata,
crepuscolo, cavalcata nel buio. È pietrame echeggiante, bruciato, è tufo grigio blu che emette un
suono quasi metallico. È baraonda diabolica, puzzo di zolfo e colori incantevoli: verde, giallo, rosso,
azzurro, un insieme di tonalità velenose, e, nel fondo del calderone, un inquietante grigio cenere, un
fumo, ora più sottile ora più denso, che si sprigiona da tutte le crepe, avvolgendo tutto.
È atmosfera d’inferno, è sole limpidissimo, è splendore del fuoco, è atmosfera purissima, è lava che
sbocca. È mole cupa, terribile che si distrugge, si consuma, e che ha dichiarato guerra ad ogni bellezza
della natura e dell’arte.
È rumore continuo, eruzione di sassi e ceneri; è grandioso e cupo rumoreggiare di tuono, è profondità
dell’abisso; è schioppettare di lapilli, è crepitare di ceneri, è ardore di torrente di fuoco, è scorie di
ferro, è fiamme, è bollore, è cupo vortice, è fumo denso.
E i massi. I massi si scorgono a migliaia, di varie dimensioni: lanciati per aria, circondati da una
nuvola di ceneri. La maggiore parte ripiombati nell’abisso; gli altri rotolati da ogni parte, con fracasso
d’inferno; i più pesanti ripiombati nell’abisso, con un tonfo; i più piccoli dal rumore più acuto.
01.10.18
Nicoletta Di Blasi
13
ottobre 2018
Hella Berent – Credito Masso Culo
Dal 13 ottobre al 18 novembre 2018
arte contemporanea
performance - happening
performance - happening
Location
SAACI/GALLERY
Saviano, Viale Padre Girolamo Russo, 9, (Napoli)
Saviano, Viale Padre Girolamo Russo, 9, (Napoli)
Orario di apertura
Tutti i giorni ore 18-20
Vernissage
13 Ottobre 2018, ore 19.30
Autore
Curatore