Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Michele Allegretti – Imaginary landscape
Come per la musica jazz – che si compone all’atto del suonare – questo segno non segue un progetto eppure, disponendosi sulla tela come note su di un pentagramma, svela un’immagine, la più intima e nascosta.
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Venisse, venisse un uomo, venisse un uomo al mondo, oggi, con la barba dei patriarchi: dovrebbe, se di questo tempo parlasse, lui dovrebbe solo balbettare e balbettare. ( paul celan)
Se di questo tempo si volesse parlare, si potrebbe tentare di trasformare una volta ancora la parola in pittura[1]. L’idea pittorica di Allegretti è quella di far dell’immagine una visione[2], ovvero allontanarla dalla sua forma convenzionale, rendendola tramite di una profonda apertura psichica e sensoriale, sia nel momento della sua ideazione che in quello dell’espressione che vengono così a coincidere, come in una sorta di ideogramma. Tentando questa sintesi, l’artista privilegia l’uso del bianco e del nero – il grado zero della luce e la somma di tutti i colori. Bianco e nero nelle sue opere si contendono lo spazio, sondano l’un l’altro i propri limiti, stabiliscono i margini del discorso per poi infrangerli; incontrano e mescolano diverse tonalità, si sovrappongono e si elidono, si saturano o divengono trasparenze mantenendo salda la chiarezza compositiva, la corposità che gli è propria. Preparano l’evento, divenendo segni che aspirano alla forma ma che, riconoscendola convenzione, se ne allontanano; un segno che assume valore in quanto prolungamento all’esterno dell’interiorità dell’artista.
E’ il segno lasciato da colui che, ricercando, cammina, dal raccoglitore: orme, un percorso di cui è ignoto l’approdo. E’ la sosta di fronte ad un paesaggio, davanti a volti di uomini o donne, simili e sconosciuti, è il segno di colui che osserva lo scorrere di un fiume, il fremito delle fronde, è la trasparenza di una cascata, sono le onde del mare.
Come per la musica jazz – che si compone all’atto del suonare – questo segno non segue un progetto eppure, disponendosi sulla tela come note su di un pentagramma, svela un’immagine, la più intima e nascosta. Come Pollock il quale non progetta il quadro, prevedendo invece un modo di comportamento: il modo intimo di torcere il proprio corpo nel ritmo della danza fino a che la danza stessa s’impadronisce del danzatore e fa sbocciare figure e modi che nemmeno immaginava di avere. Il ritmo silenzioso di questo segno, coinvolge l’esistenza fisica e psichica dell’artista.
Allegretti ha viaggiato e raccolto i frutti di un denso e costante confronto con le arti, esercitando e disciplinando i sensi; la musica è stata l’incontro con l’ascolto e l’esercizio della composizione, la fotografia quello con la visione e l’esercizio della narrazione. I suoi quadri sono l’esito d’una sinestesia in grado di comporre ed approfondire le proprie facoltà sensoriali.
Come in un viaggio di scoperta, la meta è il raggiungimento di una più profonda capacità di ricezione e d’intuizione, il cui dono è la sintesi. Nel caso di Allegretti, come si è già visto, la sintesi è operata nella scelta degli acromatici bianco e nero, in grado di “riqualificare” l’ esperienza traducendola in un linguaggio immediato, primordiale ma complesso.
E’ la lingua dell’empatia, la lingua del poeta cieco Omero e delle sue frasi “fatte col vento”; una lingua così ricca da non poter essere ridotta a un codice, pertanto così naturale; è la più difficile da apprendere, la più facile da sentire.
Bianco e nero permettono il raggiungimento di una sintesi sensoriale, la quiete del silenzio dopo la furia compositiva, una sorta di rarefatta sospensione: la sintesi è perciò formale e poetica, la corrosione del colore è la dichiarazione di un’attrazione verso l’incidenza della deperibilità nelle cose, la loro caducità e la loro costante trasformazione. Il levare è l’affermazione politica dell’artista contro la tendenza all’asfissia oggettuale, ovvero l’acquisizione di una grande libertà.
In tutto questo, difficile è scorgere anche una sola immagine; più semplice riconoscere un occhio, lo sguardo che sonda l’invisibile, l’ipotesi di un paesaggio che diviene passaggio verso una nuova dimensione.
L’artista qui accosta il linguaggio pittorico a quello musicale che è in grado di sviluppare meno affezione alla materia che sta trattando e ha una capacità più aerea; é un linguaggio che tende a non oggettivare il proprio prodotto, mimetizzandolo e rendendolo meno circoscrivibile, meno chiaramente decifrabile.
Come John Cage aveva fatto del silenzio il motivo fondante la propria ricerca musicale, per Allegretti la pratica della sospensione coloristica, la vertigine del bianco e nero, l’uso della cancellatura, del levare, divengono lo spazio nel quale sprofondare, il motore dell’enigma, la domanda che ripete quella richiesta che in origine la tela vuota é; ciò che permette all’artista di modificarne sostanzialmente la realtà: il quadro che prima era solo una frapposizione dell’occhio alla parete, preso da una trasformazione quasi alchemica, di sostanza per l’appunto, diviene ambiente. E se lo strato di pigmenti è appena una pellicola millimetrica, quasi inesistente, la cancellatura, lo spazio volutamente lasciato incompiuto o al caso, ha la potenza di una richiesta di senso. E’ elemento che partecipa alla costruzione del quadro, amplificandone l’afflato emozionale; il “togliere” ha una valenza positiva, luce splendente di un miracoloso stato di dubbio, inteso quale critica allo status quo delle pratiche accumulative e coibenti del contemporaneo.
Con intima coerenza quindi, l’artista si appresta a una pratica di sottrazione del proprio “io” dall’oggetto finito, il quadro, alienando quasi sempre da sé le implicazioni psicologiche, il titolo e l’attribuzione dell’opera, la cui creazione viene liberamente messa a disposizione del fruitore, come si trovasse davanti ad un paesaggio e ne entrasse in una naturale risonanza empatica di fronte alla bellezza, alla potenza emanate.
La materia diviene così sensibile, diventa spazio; l’attenzione dell’artista è incentrata sui supporti reali dell’immagine, sulla sostanza delle cose: il telaio, la carta, la tela o l’inchiostro con i quali Allegretti si confronta, sondandone porosità e resistenza e accettando qualsiasi “incidente” la materia gli possa provocare (una grinza, una macchia); l’evento casuale e non previsto diviene epifania della realtà dell’esperienza artistica che ha prodotto l’opera e ne sancisce una sorta di completezza, di finitezza, la certezza del reale davanti all’ambiguità delle nostre affermazioni e all’incomunicabilità delle proprie più recondite sensazioni.
Cage parlando della sua ricerca musicale, ebbe a dire:“ ho introdotto il silenzio: era il suolo, la terra, nella quale il vuoto poteva crescere; il silenzio non è l’assenza del suono, bensì l’involontaria azione del mio sistema nervoso e della circolazione del mio sangue”. In questo manifesto di libertà il corpo diviene per la musica una lingua da ascoltare, un paesaggio da guardare, e l’artista preso in questo nuovissimo ascolto, è finalmente in grado di operare secondo natura[3].
Così è anche per Allegretti che costruisce la sua galleria di imaginary landscape[4] rivolgendo il suo interesse allo stato d’animo col quale avviene l’esecuzione dell’opera e attraverso il quale viene percepita, per raccontarci con la lingua del sangue, con gesti e moti del viso, l’infinitesimale pellicola sensibile che lui è sulla faccia di questo ideale paesaggio che chiamiamo mondo.
Come a dire: venisse oggi, venisse al mondo un uomo, oggi, a portarci le parole del silenzio, noi potremmo forse smettere di balbettare e balbettare.
[1] La storia è sempre disponibile a misurarsi con strumenti d'indagine, anche dissimili. Tra questi ultimi rientra anche la pittura. Ad esempio, per un’artista quale Kiefer – al quale sicuramente Allegretti guarda – la pittura costituisce lo strumento personale per scandagliare la storia, il mito, i testi sacri.
La pittura è in grado di spingersi oltre l'obiettività storica, riconosciuta attraverso i consueti strumenti. Attraverso l'associazione di forme, colori e materiali può servire a riportare a galla verità rimosse. Può permettere di smascherare contraddizioni ed ambivalenze recondite. Consente di scardinare tabù consolidati. Kiefer concepisce infatti la pittura come strumento di esorcismo di una storia dai tratti solo paradossalmente umani; il linguaggio pittorico sostituisce l’ammonimento verbale e diviene mezzo per entrare nelle viscere, nei meandri oscuri, sollecitando decisione e responsabilità finale da parte dell'osservatore.
[2] Idea deriva dal verbo gr. Idéin (=vedere); la parola Immagine presenta invece un’etimologia incerta
[3] La responsabilità dell’artista è quella di imitare la natura nella sua maniera di operare; cfr Ananda K. Coomeraswammy
[4]Cage chiamò così le sue partiture in cui ogni regola tecnica veniva trascurata per lasciar spazio alla libera espressione dell’interprete, alla casualità dei suoni
Se di questo tempo si volesse parlare, si potrebbe tentare di trasformare una volta ancora la parola in pittura[1]. L’idea pittorica di Allegretti è quella di far dell’immagine una visione[2], ovvero allontanarla dalla sua forma convenzionale, rendendola tramite di una profonda apertura psichica e sensoriale, sia nel momento della sua ideazione che in quello dell’espressione che vengono così a coincidere, come in una sorta di ideogramma. Tentando questa sintesi, l’artista privilegia l’uso del bianco e del nero – il grado zero della luce e la somma di tutti i colori. Bianco e nero nelle sue opere si contendono lo spazio, sondano l’un l’altro i propri limiti, stabiliscono i margini del discorso per poi infrangerli; incontrano e mescolano diverse tonalità, si sovrappongono e si elidono, si saturano o divengono trasparenze mantenendo salda la chiarezza compositiva, la corposità che gli è propria. Preparano l’evento, divenendo segni che aspirano alla forma ma che, riconoscendola convenzione, se ne allontanano; un segno che assume valore in quanto prolungamento all’esterno dell’interiorità dell’artista.
E’ il segno lasciato da colui che, ricercando, cammina, dal raccoglitore: orme, un percorso di cui è ignoto l’approdo. E’ la sosta di fronte ad un paesaggio, davanti a volti di uomini o donne, simili e sconosciuti, è il segno di colui che osserva lo scorrere di un fiume, il fremito delle fronde, è la trasparenza di una cascata, sono le onde del mare.
Come per la musica jazz – che si compone all’atto del suonare – questo segno non segue un progetto eppure, disponendosi sulla tela come note su di un pentagramma, svela un’immagine, la più intima e nascosta. Come Pollock il quale non progetta il quadro, prevedendo invece un modo di comportamento: il modo intimo di torcere il proprio corpo nel ritmo della danza fino a che la danza stessa s’impadronisce del danzatore e fa sbocciare figure e modi che nemmeno immaginava di avere. Il ritmo silenzioso di questo segno, coinvolge l’esistenza fisica e psichica dell’artista.
Allegretti ha viaggiato e raccolto i frutti di un denso e costante confronto con le arti, esercitando e disciplinando i sensi; la musica è stata l’incontro con l’ascolto e l’esercizio della composizione, la fotografia quello con la visione e l’esercizio della narrazione. I suoi quadri sono l’esito d’una sinestesia in grado di comporre ed approfondire le proprie facoltà sensoriali.
Come in un viaggio di scoperta, la meta è il raggiungimento di una più profonda capacità di ricezione e d’intuizione, il cui dono è la sintesi. Nel caso di Allegretti, come si è già visto, la sintesi è operata nella scelta degli acromatici bianco e nero, in grado di “riqualificare” l’ esperienza traducendola in un linguaggio immediato, primordiale ma complesso.
E’ la lingua dell’empatia, la lingua del poeta cieco Omero e delle sue frasi “fatte col vento”; una lingua così ricca da non poter essere ridotta a un codice, pertanto così naturale; è la più difficile da apprendere, la più facile da sentire.
Bianco e nero permettono il raggiungimento di una sintesi sensoriale, la quiete del silenzio dopo la furia compositiva, una sorta di rarefatta sospensione: la sintesi è perciò formale e poetica, la corrosione del colore è la dichiarazione di un’attrazione verso l’incidenza della deperibilità nelle cose, la loro caducità e la loro costante trasformazione. Il levare è l’affermazione politica dell’artista contro la tendenza all’asfissia oggettuale, ovvero l’acquisizione di una grande libertà.
In tutto questo, difficile è scorgere anche una sola immagine; più semplice riconoscere un occhio, lo sguardo che sonda l’invisibile, l’ipotesi di un paesaggio che diviene passaggio verso una nuova dimensione.
L’artista qui accosta il linguaggio pittorico a quello musicale che è in grado di sviluppare meno affezione alla materia che sta trattando e ha una capacità più aerea; é un linguaggio che tende a non oggettivare il proprio prodotto, mimetizzandolo e rendendolo meno circoscrivibile, meno chiaramente decifrabile.
Come John Cage aveva fatto del silenzio il motivo fondante la propria ricerca musicale, per Allegretti la pratica della sospensione coloristica, la vertigine del bianco e nero, l’uso della cancellatura, del levare, divengono lo spazio nel quale sprofondare, il motore dell’enigma, la domanda che ripete quella richiesta che in origine la tela vuota é; ciò che permette all’artista di modificarne sostanzialmente la realtà: il quadro che prima era solo una frapposizione dell’occhio alla parete, preso da una trasformazione quasi alchemica, di sostanza per l’appunto, diviene ambiente. E se lo strato di pigmenti è appena una pellicola millimetrica, quasi inesistente, la cancellatura, lo spazio volutamente lasciato incompiuto o al caso, ha la potenza di una richiesta di senso. E’ elemento che partecipa alla costruzione del quadro, amplificandone l’afflato emozionale; il “togliere” ha una valenza positiva, luce splendente di un miracoloso stato di dubbio, inteso quale critica allo status quo delle pratiche accumulative e coibenti del contemporaneo.
Con intima coerenza quindi, l’artista si appresta a una pratica di sottrazione del proprio “io” dall’oggetto finito, il quadro, alienando quasi sempre da sé le implicazioni psicologiche, il titolo e l’attribuzione dell’opera, la cui creazione viene liberamente messa a disposizione del fruitore, come si trovasse davanti ad un paesaggio e ne entrasse in una naturale risonanza empatica di fronte alla bellezza, alla potenza emanate.
La materia diviene così sensibile, diventa spazio; l’attenzione dell’artista è incentrata sui supporti reali dell’immagine, sulla sostanza delle cose: il telaio, la carta, la tela o l’inchiostro con i quali Allegretti si confronta, sondandone porosità e resistenza e accettando qualsiasi “incidente” la materia gli possa provocare (una grinza, una macchia); l’evento casuale e non previsto diviene epifania della realtà dell’esperienza artistica che ha prodotto l’opera e ne sancisce una sorta di completezza, di finitezza, la certezza del reale davanti all’ambiguità delle nostre affermazioni e all’incomunicabilità delle proprie più recondite sensazioni.
Cage parlando della sua ricerca musicale, ebbe a dire:“ ho introdotto il silenzio: era il suolo, la terra, nella quale il vuoto poteva crescere; il silenzio non è l’assenza del suono, bensì l’involontaria azione del mio sistema nervoso e della circolazione del mio sangue”. In questo manifesto di libertà il corpo diviene per la musica una lingua da ascoltare, un paesaggio da guardare, e l’artista preso in questo nuovissimo ascolto, è finalmente in grado di operare secondo natura[3].
Così è anche per Allegretti che costruisce la sua galleria di imaginary landscape[4] rivolgendo il suo interesse allo stato d’animo col quale avviene l’esecuzione dell’opera e attraverso il quale viene percepita, per raccontarci con la lingua del sangue, con gesti e moti del viso, l’infinitesimale pellicola sensibile che lui è sulla faccia di questo ideale paesaggio che chiamiamo mondo.
Come a dire: venisse oggi, venisse al mondo un uomo, oggi, a portarci le parole del silenzio, noi potremmo forse smettere di balbettare e balbettare.
[1] La storia è sempre disponibile a misurarsi con strumenti d'indagine, anche dissimili. Tra questi ultimi rientra anche la pittura. Ad esempio, per un’artista quale Kiefer – al quale sicuramente Allegretti guarda – la pittura costituisce lo strumento personale per scandagliare la storia, il mito, i testi sacri.
La pittura è in grado di spingersi oltre l'obiettività storica, riconosciuta attraverso i consueti strumenti. Attraverso l'associazione di forme, colori e materiali può servire a riportare a galla verità rimosse. Può permettere di smascherare contraddizioni ed ambivalenze recondite. Consente di scardinare tabù consolidati. Kiefer concepisce infatti la pittura come strumento di esorcismo di una storia dai tratti solo paradossalmente umani; il linguaggio pittorico sostituisce l’ammonimento verbale e diviene mezzo per entrare nelle viscere, nei meandri oscuri, sollecitando decisione e responsabilità finale da parte dell'osservatore.
[2] Idea deriva dal verbo gr. Idéin (=vedere); la parola Immagine presenta invece un’etimologia incerta
[3] La responsabilità dell’artista è quella di imitare la natura nella sua maniera di operare; cfr Ananda K. Coomeraswammy
[4]Cage chiamò così le sue partiture in cui ogni regola tecnica veniva trascurata per lasciar spazio alla libera espressione dell’interprete, alla casualità dei suoni
05
febbraio 2005
Michele Allegretti – Imaginary landscape
Dal 05 al 23 febbraio 2005
arte contemporanea
Location
SATURA – PALAZZO STELLA
Genova, Piazza Stella, 5/1, (Genova)
Genova, Piazza Stella, 5/1, (Genova)
Orario di apertura
dal martedì al sabato 16.30-19. Chiuso lunedì e festivi
Vernissage
5 Febbraio 2005, ore 17
Autore
Curatore