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Valerio Bellati / Yasmin Brandolini d’Adda – Turbamenti della forma
Negli ultimi decenni del secolo scorso in Val Mareno (Treviso) abitavano, poco distanti l’uno dall’altra, due pittori colti e raffinati : Valerio Bellati e Yasmin Brandolini d’Adda. Aristocratici, e non solo in senso metaforico, si conoscevano, frequentavano e stimavano reciprocamente. Avevano compiuto in gioventù solidi studi artistici e mosso i primi passi di una promettente carriera, ma entrambi, a motivo dei casi della vita, avevano interrotto la militanza artistica, che avevano poi ripreso con sistematicità e concentrazione in età matura. Dopo essere vissuti in crocevia culturali come Venezia e Milano, dove avevano assimilato i fermenti delle avanguardie, si erano ritirati tra le colline della Marca Trevigiana e avevano decantato le esperienze assimilate in meditati percorsi personali. Si orientarono l’uno verso l’informale e l’altra verso l’astrazione, che esplorarono con assoluto rigore e persuasione, considerandoli ampi universi espressivi non soggetti al mutamento effimero degli stili. Ad essi abbiamo dedicato la mostra, con lo scopo di ricostruire un frammento della recente storia artistica locale e di richiamare l’attenzione su esperienze che conservano una straordinaria vitalità.
Nato a Padova nel 1923, quintogenito del conte Francesco, Valerio Bellati si iscrive nel 1946 al corso di scultura dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, dove segue i corsi di Venanzo Crocetti e Alberto Viani. Frequenta l’ambiente che ruota intorno a Peggy Guggenheim e si lega, tra gli altri, a Tancredi Parmeggiani, Riccardo Licata e Giorgio Dario Paolucci. In quegli anni è attivo come scultore e ceramista; su invito di Mario De Luigi partecipa nel 1962 alla XXXI Biennale d’Arte. In seguito inizia a dipingere ed espone con regolarità. Negli anni ’70 si trasferisce nella villa diPremaor di Miane e dopo alcuni sfortunati tentativi imprenditoriali si dedica assiduamente all’attività artistica fino alla scomparsa avvenuta nel 1996.
Dopo prove d’esordio influenzate dall’acceso colorismo dell’amico Paolucci, Valerio Bellati individua il suo registro creativo in una quasi-figurazione monocroma di impronta surrealista, caratterizzata da sagome antropomorfe che costruiscono narrazioni fantastico-fantascientifiche, accentuate dalla tendenza ad allineare i personaggi in fasce o in riquadri giustapposti.
Dai dipinti costruiti in sezioni passa rapidamente a superfici formate da macro-elementi approssimativamente regolari, elaborate attraverso un’invenzione che si rinnova di volta in volta, senza ripetere schemi prestabiliti o codici personali. I residui delle strutturazioni si sciolgono in una trama imprevedibile di segni. Inizia una proliferazione di texture create da ripetuti tocchi di pennello o da segni grafici, prevalentemente minuscoli ma a volte di un certo spessore, variati in modi sempre diversi, che pervadono tele minuziosamente lavorate.
Nella sua maturità Bellati sembra riappropriarsi delle ragioni dello spazialismo, assimilate nelle frequentazioni veneziane della giovinezza, e si impegna a trasformarle in superfici vibranti, campi di regolarità generati da una diffusione isotropa del ritmo grafico e gestuale. Non compaiono linee di forza o centri di gravitazione in queste aree, che appaiono pervase da un brulichio, un moto browniano uniforme e privo di turbolenze.
Se accade, a volte, di intravedere riferimenti al paesaggio pedemontano, si tratta di scenari in cui gli elementi definiti hanno perso qualsiasi rilevanza e quasi si dissolvono nell’insieme omogeneo e indifferenziato. Ogni possibile salienza viene riassorbita dallo sfondo.
Solo in un gruppo limitato di lavori l’artista sembra raccogliere le energie e saggiare la consistenza del gesto perentorio e assertivo, del segno singolo e deciso, che si presenta in tal caso come un enigmatico calligramma orientale.
La luce, grande protagonista delle opere di Bellati, affiora attraverso stratificazioni tendenzialmente monocrome, di ascendenza innegabilmente veneta. In certe opere dominano gli azzurri e i grigi, che evocano atmosfere evanescenti e rarefatte, in altre i bruni e i beige di epifanie terragne e minerali, spesso accentuate dalla densità della materia pittorica, ottenuta grazie ad una sperimentazione che utilizza anche materiali inusuali, come la sabbia e la cenere.
Yasmin Petersen nasce a Cape Town nel 1929 da famiglia di lingua inglese. Studia pittura in Sud Africa con Maurice von Essche (allievo di Ensor e di Matisse), poi a Londra nel 1948 e a Firenze nel 1949 con Rosai e Conti. Nel 1951 sposa il conte Brandolino Brandolini d’Adda. Dal 1960 si trasferisce a Milano, dove frequenta l’ambiente letterario e musicale. Dopo una sospensione dell’attività artistica per ragioni di salute e di famiglia riprende ad esporre regolarmente nel 1971, riscuotendo l’attenzione, tra gli altri, di Dino Buzzati, Giuseppe Marchiori e Gillo Dorfles. Collabora con poeti e con i compositori Franco Donatoni e Corrado Pasquotti. Nel 1987 si stabilisce a Cison di Valmarino. Muore nel 2012.
Dopo un esordio figurativo e un passaggio attraverso il collage, Yasmin Brandolini d’Adda conquista il suo linguaggio pittorico verso la metà degli anni settanta e ad esso resta sostanzialmente fedele nel corso di tutta la ricerca successiva. Dalla stilizzazione della figura femminile, colta di spalle, derivano inizialmente configurazioni chiuse e omogenee. Su questa base la pittura identifica elementi definiti, porzioni di spazio isolate e ben distinte dal fondo, che abbandonano ogni esplicita referenzialità.
Dal blocco compatto si passa ad una varietà di forme irregolari, poliedriche, mistilinee, prevalentemente piatte, ora acuminate, ora arrotondate, a volte concave. Ne deriva un caratteristico repertorio di morfemi non iconici, un “singolare alfabeto asemantico” come lo ha definito Gillo Dorfles, che sfugge ad ogni riferimento, pur evocando indefinite suggestioni, di volta in volta, di matrice biologica, tecnica o paesaggistica. Le sagome bidimensionali che abitano questa pittura, campite in modo omogeneo o delicatamente sfumate con sovrapposte velature di colore, sono protagoniste di un universo enigmatico e rarefatto. Yasmin Brandolini esplora il codice in direzioni diverse, sempre rigorosamente controllate. I contorni delle sagome sono inizialmente definiti con un tratto deciso; successivamente vengono alonati, con un margine di morbida indeterminazione o sfrangiati in una dispersione atmosferica. Altri percorsi riguardano la sintassi compositiva. A volte le forme si impongono in un nitido isolamento, altre volte sono abbinate e correlate tra loro. Nelle installazioni - realizzate nel contesto di importanti spazi architettonici - sono moltiplicate in modo seriale; nei dipinti degli ultimi anni novanta si trasformano in superfici dilatate, in cui lo sfondo è ridotto ad un margine esiguo. Un’attenzione particolare è rivolta ai colori, realizzati con tempere all’uovo preparate secondo antichi segreti di bottega e stesi su una speciale carta a mano di fabbricazione francese. La scelta di tonalità non naturalistiche - i blu, i viola, i vinaccia, i bruni - e una forte propensione alla monocromia - che solo in un breve periodo si apre ad una modulazione policroma e tonale - contribuiscono ad accentuare la dimensione metafisica. Più che offrire una trasfigurazione dell’esistente questa pittura sembra evocare un universo parallelo, una patria dell’anima in cui trovare rifugio dal caos turbolento del reale.Eppure l’equilibrio formale che struttura ogni dipinto e gli conferisce quella che appare un’imperturbabile armonia - espressione di un ideale apollineo, ispirato ad una chiarezza di matrice rinascimentale, perseguita dall’artista con sistematica determinazione - racchiude un pensiero segreto, non privo di inquietudine. In molte opere la configurazione, pur nella sua silenziosa staticità, appare gravida di potenziale e sembra racchiudere un rinvio ad ulteriori possibilità. C’è come un’attesa segreta, un’apertura sull’altrove.
Valerio Bellati / Yasmin Brandolini d’Adda – Turbamenti della forma
Pieve Di Soligo, Piazza Libertà, 7, (Treviso)