09 novembre 2022

exibart prize incontra Angelo Valli

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Nella produzione mi affido alla spontaneità e alla velocità di esecuzione, il caso è elemento costitutivo.

Angelo Valli

Qual è stato il tuo percorso artistico?

Sono nato a Chiari (BS) nel 1956 e sono cresciuto a Castelcovati (BS), piccolo paese all’inizio della bassa bresciana dove ho trascorso l’infanzia e l’adolescenza immerso negli umori della fertile campagna, bagnata da canali irrigui, fossi e seriole dove ho imparato a nuotare. Ho giocato con la terra, con gli animali, immerso nel profumo degli orti, delle piante di fico e di noci, ma anche con la sabbia, l’acqua, la calce viva, il cemento e i mattoni: materiali edili gestiti da mio padre piccolo imprenditore edile. Di mia madre, insegnante elementare, godevo della vista dei suoi fiori, mi nutrivo dei colori e delle forme di circa 200 specie che coltivava con amore in giardino. Dei loro caratteri: sulfureo e d’azione il primo, riflessivo e sensibile il secondo, spesso in conflitto fra loro, realizzavo crescendo un mio personale inquieto mix, che ha necessitato anni di analisi personale e rifugio iniziale nella pittura per raggiungere un certo utile equilibrio. Il mio percorso artistico attinge fortemente alle esperienze affettive, visive, olfattive, tattili di quegli anni ma trova negli studi degli anni successivi sulla percezione visiva, sulla psicologia del profondo, sulle origini del fare arte i pensieri le idee che lo sorreggono tutt’ora. Ho iniziato a dipingere per urgenza/necessità espressiva a 17 anni, in piena crisi adolescenziale: mi sentivo stretto dentro un percorso scolastico intrapreso con scarse consapevolezze/desideri sul futuro. Dopo il diploma di perito industriale mi sono laureto in psicologia clinica a Padova, con una tesi in psicologia dell’arte e successivamente specializzato in psicoterapia. Mi ritengo sostanzialmente autodidatta in ambito artistico. La pittura (inizialmente figurativa, poi da circa 40 anni a questa parte astratta) mi accompagna dai primi anni ’70 nutrita da progressive conoscenze di storia dell’arte, di consapevolezze e ricerche sul valore estetico oltre che espressivo – catartico del mio operare in questo specifico ambito.  Le visite a musei e a mostre e fiere nazionali ed europee, il serrato confronto con amici artisti e la visione diretta di opere di grandi maestri contemporanei italiani ed esteri (fra questi in particolare: Kounellis, Fetting, De Dominicis, Taaffe, Shnabel, Twombly, Basquiat) presenti nelle collezioni di importanti collezionisti del bresciano hanno forgiato il mio sguardo estetico critico e affinato il senso di una personale direzione presa. Collego comunque, per grande sintesi, gli sviluppi del mio lavoro a partire dalle matrici culturali ed estetiche dell’informale europeo, dell’action painting, dell’astrazione lirica, del color field. Il percorso artistico l’ho svolto da outsider, fuori dai circuiti delle gallerie e del mercato (non ho mai avuto contratti con gallerie né mi sono preoccupato di cercarne). Le opere dei primi anni, perlopiù utilizzando acrilici, acquerello e inchiostri erano caratterizzate da velocità di esecuzione, pittura segnica automatica, colori vivaci, gesto ampio e prevalentemente su carta. Successivamente nascono campiture e stratificazioni, con uso di acrilici, olio, vernici industriali, su diversi supporti, e il gesto è maggiormente contenuto. A metà anni ’80 nascono i primi lavori di medie/ grandi dimensioni e le gamme di colore virano, anche, su cromatismi plumbei/neri o a forte contrasto segnico cromatico. Dagli anni 90 introduco elementi meditativi, compaiono frasi o abbozzi di parole all’interno dell’opera e i titoli diventano elementi scelti per marcare l’intento poetico, suggerire sinestesie. Ho realizzato diverse esposizioni personali e partecipato a collettive ricercando, negli ultimi dieci anni in particolare contesti espositivi come “luoghi dell’anima”, in dimore storiche di pregio architettonico e culturale dove poter collocare, interagendo con i diversi contesti, le opere e far così dialogare fra loro lo storico e il contemporaneo. Cito le mostre realizzate nell’ultimo decennio: Legami germinativi, Serra dei Giardini della Biennale, Venezia, 2013; Dove in-certi confini, Palazzo Secco d’Aragona, Bornato, BS, 2014; Finis Terrae e Diverse impronte, Castello Quistini, Rovato, BS, 2015 e 2016; Anacronie. Tracciare il tempo, Palazzo Barbò, Torre Pallavicina, BG, 2017; Percepire l’oltre, Museo della Città di Chiari, Chiari, BS, 2018; Il gesto e la Misura, Palazzo Barbò, Torre Pallavicina, BG, 2022.
Il mio lavoro è presente, con note biografiche, testi critici e quotazioni, in alcune pagine delle pubblicazioni “Artisti ’21 e Artisti ’22” – Annuari d’arte contemporanea” delle edizioni Mondadori e nell’ “Atlante dell’Arte Contemporanea ‘22” della casa editrice De Agostini.

 

Quali sono gli elementi principali del tuo lavoro?

Fondamentalmente il mio lavoro attinge ai “paesaggi raccolti nella psiche” come descritti da Vittorio Lingiardi, psicoanalista, nel suo bel libro “Mindscapes. Psiche nel paesaggio”. Nella produzione mi affido alla spontaneità e alla velocità di esecuzione, il caso è elemento costitutivo. Precise costellazioni emotive del momento che vivo o affioranti da antiche memorie determinano il ritmo dei segni, del gesto, che può essere veloce o lento ampio o “coartato”; opero comunque nel costante esercizio percettivo volto a cogliere e gestire l’imprevisto come favorevole elemento perturbante creativo; non parto da un’idea o un pensiero preciso: semmai questi si costruiscono strada facendo fino a quando l’opera in produzione risponde a precisi requisiti di resa emotiva, estetica, cognitiva. Il titolo che do a volte suggerisce la strada di lettura, altre volte marca la necessità di spaesamento e confina con l’esigenza poetica.

 

In quale modo secondo te l’arte può interagire con la società, diventando strumento di riflessione e spinta al cambiamento?

Credo sia importante riconoscere innanzitutto la complessità presente nella risposta a una domanda come questa: quale società? Quale cambiamento? La mia risposta potrebbe essere così riassunta: qualunque mezzo un artista utilizzi, dalla classica pittura su tela alla performance l’importante è promuovere “l’andare oltre”: oltre gli stereotipi, i pregiudizi, oltre le inutili ripetizioni, “oltre” anche inteso come metafora esistenziale, come necessità di approccio poetico ai grandi temi della vita. Nel fruitore medio, non alfabetizzato sull’arte contemporanea, mi capita ancora a distanza di anni in occasione di mie esposizioni di doverlo introdurre al concetto, ad esempio, sul significato possibile di un’opera “senza titolo”; con altri, altrettanto poco alfabetizzati ma  evoluti sul piano empatico o forniti di molti neuroni specchio, il confronto si svolge perlopiù sul gradimento emotivo ed estetico che l’opera astratta suscita. Difficile spesso “andare oltre”. Mi sono abituato, in assenza di un approccio critico da parte di terzi che favorisca la comprensione, per i non alfabetizzati, degli elementi cardine di un’opera astratta, a spendermi per raccontare cos’è per me, a cosa rimanda in termini di appartenenza culturale ma soprattutto da dove e come nasce un mio lavoro. Anche con la critica ufficiale mi sono imbattuto in situazioni dove il rischio è di non andare oltre: nello scambio con alcuni critici d’arte, giustamente alfabetizzati a modo loro, sono emersi nell’interpretazione di miei lavori gli stereotipi e le economie di mestiere, in un caso prontamente e proficuamente – anche per il critico – rigettate/i. In quest’ultima situazione un’opera ad olio su tela, di piccole dimensioni, intitolata “Come petrolio” (vedi immagine) – da me scelta e destinata a corredo del testo critico ed exursus professionale su una edizione di un volume d’arte a tiratura nazionale – al primo approccio telefonico il critico avanzava l’ipotesi che l’opera rappresentasse una denuncia del consumismo e i conseguenti disastri ambientali. La mia risposta via e-mail credo abbia aiutato il professionista ad “andare oltre” recuperando, attraverso l’interazione realizzata, la proposta di riflessione su altri significati, inerenti grandi temi universali della vita: l’amore, la nascita, i ricordi, la morte, l’appartenenza o la marginalità, ecc.. Riporto uno stralcio di quella mia proposta di lettura dell’opera: “’Come petrolio? ha bisogno di un approccio meditativo, silenzioso, evoca echi di sonorità profonde, antichi suoni e rumori della madre terra, giù, dentro, è giacimento segreto (..). È “intervallo perduto” (..) qui ritrovato, è ricchezza e risorsa, è nel Sé profondo, come rifiuto del “troppo pieno” e del “troppo rumore”(..). È il buio con la prima luce, sono la luce e il buio insieme, l’una e l’altro, il lucido e l’opaco e il loro rapporto (..). È il “vedere oltre”, esige avvicinamenti insoliti: devi affinare la percezione/osservare (non è “nero”, possiede varianti di colore). ‘Come petrolio’ è rimanere dentro, in contatto con le profondità della mente, in contatto con la minima luce e con il buio, con l’angoscia e con la speranza (..). È dolce e amaro, come un frammento di liquirizia. In questo giacimento, entrandoci, puoi trovare ragioni sufficienti per stare bene con la tristezza, anche con quella di De Niro nel finale di ‘C’era una volta in America’ “.

 

Quali sono i tuoi programmi per il futuro?

Continuerò a “fare arte” e a programmare una prossima mostra, mi piacerebbe realizzarla in luoghi di archeologia industriale dove far convivere nuove produzioni pittoriche con installazioni che ho in mente. Vorrei anche, dopo anni da outsider, allargare e ridefinire  i miei orizzonti nell’ambito del “mercato dell’arte”. Lo considero una sorta di nuovo inizio – sempre fiducioso dei possibili frutti derivanti da nuovi incontri, altri sguardi ed esperienze – soprattutto ora per me caratterizzato dalla necessità di una verifica di mercato che mi permetta di indagare ulteriormente la qualità dell’opera attraverso un maggiore confronto e scambio con gli “addetti ai lavori”, con le gallerie.

 

In quale modo le istituzioni potrebbero agevolare il lavoro di artisti e curatori?

Condividendo un approccio culturale che non privilegi caste o solo artisti “conclamati”. Le istituzioni dovrebbero mettere a disposizione anche di giovani e outsider spazi adatti (non fatiscenti ma “belli con l’anima”) per esporre, magari recuperando luoghi storici, archeologia industriale, ma anche cascine disabitate, corridoi d’ospedale.  Andrebbero agevolati assessori e curatori che sappiano – nel rispetto del continuum di stili e correnti da conoscere e poter rappresentare – fornire occasioni di confronto/interazione (laboratori) fra artisti e fruitori, collegare le esposizioni e le occasioni di confronto facendo entrare gli studenti delle scuole ma anche i non addetti ai lavori, recuperando feedback utili ad accogliere/restituire/promuovere una alfabetizzazione poetica nutrita nello scambio.

 

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