03 luglio 2023

exibart prize incontra Caterina Sbrana

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Buona parte del mio lavoro verte sul rapporto diretto con il paesaggio come spazio liminale, di incontro tra l'umano e il non umano.

Caterina Sbrana

Qual è stato il tuo percorso artistico?

Forse il primo passo inconsapevole e affascinato è stato quello all’interno del laboratorio di mio padre, falegname e restauratore, tra l’odore dei materiali, la polvere, gli strumenti di lavoro, ricordo le mani di mio padre così incrostate di cera e gommalacca da cambiare aspetto.
Dopo il Liceo Classico a Pisa ho studiato restauro di dipinti e poi di manufatti lignei e dorature a Firenze, Perugia e Pisa.
Queste esperienze, per quanto apparentemente diverse, quella del Liceo legata allo studio delle materie umanistiche e l’altra pratica e manuale, nascondono aspetti molto simili: la ricerca  della radice delle parole e l’osservazione di ciò che sta dentro e sotto il substrato pittorico e l’osservazione dei materiali sono in fondo un modo di esplorazione e una possibilità di scoprire stratificazioni e i legami segreti tra  cose in apparenza lontane. Queste esperienze hanno segnato il mio modo di vedere le cose  di avvicinarmi al mondo e di affrontare la mia ricerca, sono legata tanto al pensiero, alle parole, alla scrittura  quanto al lavoro manuale.
Quindi mi  sono iscritta all’Accademia di Belle Arti di Carrara ho studiato pittura ed Arti visive con Omar Galliani, in quegli anni ho compiuto le prime esperienze espositive, e nel 2008 a Sakros, una galleria che era nata all’interno di un laboratorio di marmo, nella mia prima personale Organica, esposi i primi lavori a capsula di papavero e una installazione spolverata  sul pavimento di marmo con la cenere raccolta sul Vesuvio da una amica geologa: un pavimento a scacchi  che riproduceva il pavimento della casa del Fauno di Pompei, e che veniva cancellato dal passaggio dei  visitatori e che durò pochi minuti.
Negli anni dell’Accademia durante l’estate lavoravo in una azienda agricola biodinamica vicino a casa, il lavoro consisteva essenzialmente nel togliere l’erba dai campi a mano: ritrovo questo gesto ripetitivo e quelle ore passate  ad osservare la terra e la piante nelle diverse ore del giorno, in tanti lavori che ho affrontato dopo. Anche le persone che lavoravano con me alcune anziane, altre che venivano da altri paesi, mi hanno donato visioni diverse del rapporto con la natura ed il paesaggio.
A Carrara iniziai ad interessarmi anche alla scultura e alla ceramica che ho approfondito una volta uscita dall’Accademia e  che adesso è centrale nel mio lavoro. Nel 2009 ho fondato Studio17  uno spazio dedicato alla sperimentazione e alla ricerca nella ceramica e nelle arti visive  con lo scultore Gabriele Mallegni .
Una volta uscita dall’Accademia ho iniziato ad esporre e a collaborare con gallerie, musei e istituzioni d’arte contemporanea, come Palazzo Strozzi dove ho lavorato tra gli altri ad A più Voci, un progetto per le persone malate di Alzheimer e per chi se ne prende cura.

 

Quali sono gli elementi principali del tuo lavoro?

Buona parte del mio lavoro verte sul rapporto diretto con il paesaggio come spazio liminale, di incontro tra l’umano e il non umano, tra natura e cultura, nel paesaggio si incontrano e si stratificano visioni, incubi e nuove possibilità. Il paesaggio è al centro di una  riflessione senza tempo ma che oggi è più stringente e necessaria perché stiamo toccando con mano, in modo drammatico, gli effetti, del nostro operato, della frattura, prima di tutto simbolica e spirituale, con la natura.
Spesso uso l’immaginario geografico per indagare queste dinamiche come nel lavoro ciclico, rituale con le capsule di papavero, un lavoro che riprende ad ogni fioritura. Uso le capsule di questa pianta antica e radicata in tutto il mediterraneo come pixels naturali per tracciare un bestiario addormentato e soprattutto mappe. Grandi mappe dei luoghi di raccolta, dell’argine del fiumi, degli spazi incolti che ricordano le mappe dipinte delle Sale delle Carte Geografiche come quelle dei musei Vaticani o di Palazzo Vecchio a Firenze dove sono rappresentati luoghi di potere e conquista, mentre le mappe a capsula di papavero tracciano luoghi in cui si intrecciano di nuovo la geografia umana e quella vegetale.
Oppure nella serie di vedute ispirate ai programmi di esplorazione digitale come Google Earth e restituite attraverso materiali, pigmenti e succhi che raccolgo nel paesaggio reale, unisco due visioni di paesaggio, uno globale, freddo e lontano, l’altro locale, privato, che attraverso quotidianamente.
Un lavoro che mi ha portato a conoscere a raccogliere piante selvatiche, e a coltivare piante tintorie antiche, ad esplorare i processi di estrazione dei pigmenti e dei coloranti, un percorso inesauribile in cui mi sento sempre all’inizio.
Da alcuni anni lavoro moltissimo con la ceramica, un materiale che sempre mi stupisce per la sensibilità che registra ogni traccia e tocco, per la capacità mimetica e di trasformazione, come nel lavoro Autosomiglianza in cui oggetti domestici diventano il teatro del rapporto mai pacificato tra uomo e natura. Ad Imboscata (a cura di Shilha Scintelli, Rachel Morellet, Eva Sauer ed Enrico Vezzi) l’anno scorso ho iniziato a costruire degli abbeveratoi in ceramica per gli animali selvatici con la forma dell’alveo di alcuni laghi perduti nella storia del mondo, un  campionario di geografie perdute attorno alle quali vivevano comunità, ecosistemi e attorno a questi abbeveratoi, restituzioni  in scala ridotta, tornano a muoversi nuove geografie animali.
Quasi tutti i miei lavori sono cicli aperti che ritornano, sono legati al tempo e alla memoria, spesso nascono dal quotidiano, dal contatto con persone che fanno cose molto diverse, un elemento molto importante è l’esplorazione dei materiali, delle tecniche artigianali che suggeriscono percorsi inaspettati e il lavoro manuale, di laboratorio, anche questo è una fonte inesauribile di stimoli e di nuove idee è un modo di pensare ed elaborare usando le mani.

 

In quale modo secondo te l’arte può interagire con la società, diventando strumento di riflessione e spinta al cambiamento?

Credo che l’arte, se nasce da un bisogno autentico, da una urgenza profonda, sia di per sé strumento di riflessione e cambiamento, di qualunque cosa parli, senza per forza affrontare temi esplicitamente politici o sociali o adoperare pratiche, atteggiamenti o slogan in particolare e aldilà del numero delle persone che riesce a toccare.
Credo che la nostra società abbia un grande problema, tra gli altri, con l’invecchiamento, con l’impermanenza, con la morte.
La meditazione sulla morte è difficile, non abbiamo gli strumenti, l’allontanamento dalla natura intesa anche come luogo dove poter fare esperienza della vita e della trasformazione e del decadimento ha sancito una frattura.
Viviamo nella velocità ma abbiamo paura del cambiamento, siamo immersi in un presente eterno dove si perde il senso del tempo e la memoria e dove aleggia per assurdo un grande senso di morte.
Invece l’arte ci indica un percorso diverso ci  mostra il decadimento, la morte, ma anche la rigenerazione  può essere un grande strumento di trasformazione. In questa società cacofonica in cui i nostri sensi sono sovrastimolati, vedo l’arte come uno spazio di restituzione di senso, di complessità e di “silenzio” fecondo e per questa capacità di sguardo trasversale e multiforme, per la sua natura “sismografica” capace di intercettare movimenti invisibili e appena percettibili  credo sia, in qualche modo, una pratica “naturalmente” rivoluzionaria rispetto allo status delle cose. Mi viene in mente Gaber e il monologo su Giotto da Bondone che improvvisamente dipinge il cielo azzurro svelando un nuovo modo di vedere il mondo.

 

Quali sono i tuoi programmi per il futuro?

Attualmente sto esponendo a Villa Pacchiani a Santa Croce sull’Arno nella collettiva Fuoriporta, al museo dei Georgofili nel Il Respiro della Terra e alla Fondazione Sensus di Firenze nella mostra L’estate più fredda, che raccoglie sopratutto opere in ceramica, alcuni lavori personali  ed altri realizzati in collaborazione con Gabriele Mallegni, una mostra  in progress che durerà fino alla fine di Settembre prossimo, alcuni particolari dell’allestimento e alcune opere cambieranno nel tempo e verranno sostituite. Ad Agosto sarò in Molise per una residenza artistica, non vedo l’ora di esplorare il paesaggio e di trovarmi in un luogo vicino e al tempo stesso remoto, incontrare le presenze umane vegetali e animali che lo abitano e vedere cosa succede.
Nel futuro meno prossimo e “remoto”, negli anni a venire, mi piacerebbe realizzare una mostra che raccolga tutti i lavori, i disegni e le mappe realizzate con il papavero.
Nel Trionfo della morte di Buonamico Buffalmacco al Camposanto Monumentale a Pisa nell’angolo in fondo  a destra è rappresentato un giardino in cui un gruppo di persone conversano e studiano, un hortus conclusus che ricorda il Decameron, guardandolo ho pensato che  un giorno mi piacerebbe  realizzare un orto tintorio aperto che possa coinvolgere altre persone, magari nel mio paese, un luogo di lavoro e pensiero dove poter scambiare semi, sapere e racconti.

 

In quale modo le istituzioni potrebbero agevolare il lavoro di artisti e curatori?

Si potrebbero fare tante cose, la realtà è che si investe troppo poco nella cultura e nell’arte a meno che non si tratti di grosse operazioni culturali/commerciali. Sarebbe necessario investire in modo capillare sul territorio e non solo nei grandi centri e creare una rete di spazi di ricerca, magari destinare i tanti spazi abbandonati a studi per artisti e a spazi di ricerca, si potrebbero istituire altri fondi, oltre ai pochi che già ci sono per sostenere la ricerca di artisti e curatori e magari pensare di contribuire con più  continuità al sostentamento di  chi dedica la propria vita alla ricerca nell’arte ed è in difficoltà economica. Si potrebbe incoraggiare il collezionismo e la realizzazione di opere pubbliche e private agendo sul piano fiscale. Banalmente queste sono le prime cose che mi vengono in mente ma in Italia esiste poco o nulla di tutto questo a parte rare, illuminate eccezioni locali ma mi sembra manca totalmente un piano organico. La realtà è davvero difficile nel nostro paese e credo che alla base ci sia un problema culturale. Non c’è, da parte di chi rappresenta  le istituzioni, la comprensione profonda dell’importanza della cultura, dell’arte e degli artisti nella vita reale, nell’immaginario e nell’inconscio  di una comunità. Non mancano gli esempi di paesi un po’ più lungimiranti a cui ispirarsi, manca una presa di coscienza e soprattutto la volontà.

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