02 settembre 2022

exibart prize incontra Francesco Meloni

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Le metafore architettoniche mi permettono di descrivere la frattura insita nel rapporto tra uomo e natura e il modo in cui le strutture che ci circondano possono influenzare la nostra vita.

 

Qual è stato il tuo percorso artistico?

Mi sono formato al Liceo Artistico di Cagliari all’inizio degli anni Novanta e ho proseguito i miei studi al London College of Communication e alla Photofusion di Londra per poi concludere la mia formazione con la Laurea in Filosofia e il Master in Pedagogia dell’Espressione all’Università di Roma. Sono sempre stato profondamente attratto dal viaggio, dal mare e dalla musica e ho sempre pensato che senza queste passioni l’arte per me non potesse esistere e viceversa. Non trovando distanze semantiche tra gli elementi del vissuto e l’arte il mio percorso artistico si è sempre idealmente allontanato dall’arte per rimanere nell’arte.

 

Quali sono gli elementi principali del tuo lavoro?

Da diversi anni esploro il tema del cantiere come luogo in cui si definisce un pensiero privato, in grado di raccontare e rappresentare esteticamente alcune dinamiche ontologiche. Le metafore architettoniche mi permettono di descrivere la frattura insita nel rapporto tra uomo e natura e il modo in cui le strutture che ci circondano possono influenzare la nostra vita.
Più di recente il focus del mio lavoro è stato rivolto più incisivamente alle dinamiche di classe e all’edificio tout court come spazio simbolico dai tratti di forte epicità. Lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e il sacrificio di sé nell’atto costruttivo divengono, secondo questa prospettiva, elementi in potenza attraverso cui si manifesta un vero e proprio atto d’amore.
In questo universo architettonico è il cemento il materiale più adatto a rappresentare i conflitti sociali interni ed esterni e a far sì che questi prendano plasticamente forma di strutture abitative attraverso cui evidenziare la lotta intima che il materiale evoca. La mia ricerca esplora ancora oggi le dinamiche del lavoro operaio, focalizzandosi tuttavia maggiormente sugli effetti che l’energia costruttiva esercita sulla vita di chi abita determinati spazi.

 

In quale modo secondo te l’arte può interagire con la società, diventando strumento di riflessione e spinta al cambiamento?

Penso sia necessario riflettere su tematiche inerenti al lavoro, in particolare quello operaio, come traccia e specchio di una società in piena crisi ontologica. Proust chiamava “vera vita”, la vita che in un certo senso “abita ogni istante in tutti gli uomini”, ma che essi non vedono perché non hanno cercato di “rischiararla”. Attraverso il racconto di chi costruisce “la vita degli altri” cerco di offrire nuove chiavi di lettura del vivere, eludendo ogni facile pseudo–percezione per la quale rischiamo di morire senza aver esplorato ogni possibilità di comprensione delle relazioni interumane. Aderendo a un paradigma strutturale le opere rimandano quindi, a un continuo dialogo tra vita sensibile e psichica, tra vivere e vita, di cui il lavoro operaio, come un elemento vivente, diviene essenza che permane.

 

Quali sono i tuoi programmi per il futuro?

Il progetto a cui sto attualmente lavorando è ancora in fase di elaborazione ed esplora le possibilità sensoriali offerte dalle ciglia gustative in relazione all’immaginazione. Ho pensato a due operai all’interno di un cantiere che, nell’atto di gustare delle caramelle, attivano una serie di processi mentali molto intimi attraverso cui emerge il loro passato, presente, futuro.
Tra gennaio-aprile del 2023 sarò a Milano per proseguire la residenza artistica all’interno del programma VIR VIAFARINI in RESIDENCE.

 

In quale modo le istituzioni potrebbero agevolare il lavoro di artisti e curatori?

Trovo che sia la domanda più complessa, servirebbe un cambiamento…
Vedo comunque una ripresa, la voglia di continuare, di fare network e di creare nuove soluzioni che possano dare spazio a tutti gli artisti di emergere, come questa!

 

 

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