26 maggio 2020

LANGUAGE IS A VIRUS The female voice of the Italian art in search of freedom during isolation

di

iicstoccolma.esteri.it

Francesca Grilli
Loredana Longo
Marzia Migliora
Rosy Rox
Marinella Senatore

Italian Cultural Institute C.M. Lerici Stockholm

LANGUAGE IS A VIRUS a cura di Adriana Rispoli è una mostra en plein air commissionata dall’Istituto Italiano di Cultura di Stoccolma nei giorni dell’emergenza Corona virus. Al blocco delle attività imposto per scongiurare la diffusione del contagio, l’arte risponde proseguendo il suo dialogo ininterrotto con la vita, sperimentando nuovi formati espressivi.

“Il nostro obiettivo è comunicare apertamente con gli abitanti di Stoccolma”, afferma la Direttrice dell’Istituto Italiano di Cultura Maria Sica, “ma anche raggiungere un pubblico nuovo e rinnovare un dialogo tra arte e spazio urbano. Soprattutto, sembra importante dimostrare che in questo momento l’arte non è un mezzo espressivo elitario. Forse, questa crisi può mostrarci nuovi schemi per reinventare le dinamiche tradizionali delle relazioni tra arte e pubblico. Troviamo questo esercizio molto stimolante, poiché si relaziona con una città in cui l’arte nutre gli spazi pubblici da molto tempo”.

Servendosi della tecnica dei manifesti pubblicitari, LANGUAGE IS A VIRUS usa come spazio espositivo le strade di Stoccolma, dove, sebbene non ci siano state restrizioni alla libera circolazione, sono stati chiusi al pubblico i luoghi della cultura quali musei, gallerie, teatri[1]. In questa fase di forzato confinamento, il tessuto urbano si offre come spazio di comunicazione a cinque artiste italiane: Francesca Grilli, Loredana Longo, Marzia Migliora, Rosy Rox e Marinella Senatore.

LANGUAGE IS A VIRUS riprende il titolo dell’omonima canzone di Laurie Anderson, che in questo brano-performance del 1986 fa proprie le parole di William Burroughs[2]: “il virus più pericoloso era il linguaggio”. La “mostra” LANGUAGE IS A VIRUS vuole dunque sottolineare da un lato il potere liberatorio del linguaggio, sia esso verbale o visivo, e dall’altro la sua capacità potenzialmente sovversiva. Appropriandosi dei poster pubblicitari, la mostra fuoriesce dalle pareti del “white cube”, ovvero dai luoghi d’élite assegnati all’arte, gli spazi museali, e raggiunge lo spazio pubblico, con lo scopo di mantenere viva la relazione necessaria che l’arte ha con lo spettatore e stimolare una riflessione critica sul difficile momento che stiamo vivendo.

Dal 25 maggio al 14 giugno, le kulturtavlorna, ossia i cartelloni pubblicitari della capitale svedese, si trasformano dunque in veri e propri display espositivi, da cui le artiste lanciano messaggi legati alla loro personale ricerca e condizione attuale. Francesca Grilli rielabora i risultati della performance Sparks, sul ribaltamento del rapporto di potere tra infanzia ed età adulta, attraverso l’apprendimento dell’arte della chiromanzia, realizzata con un gruppo di bambine a Tallin durante la Saal Biennaal. Can you transform the invisible into the visible? – estremamente pertinente al momento – è una delle domande formulate dalle piccole partecipanti durante la preparazione della performance e trova sfondo nell’impronta del palmo della mano di una di loro, simbolica superficie per l’interpretazione del futuro. The Hope still Lives and the Dream shall never die è la citazione scelta da Loredana Longo, che nel prolifico progetto Carpet getta un ponte tra Est e Ovest, incidendo col fuoco celebri frasi populistiche di leader occidentali su tipici tappeti orientali. Il tappeto, simbolo di una dimensione domestica, diviene supporto per le popolari citazioni ormai appartenenti a una sfera collettiva. L’artista si appropria del potere di coinvolgimento del linguaggio sulle masse facendo proprie, in questo caso, le parole Hope e Dream di Ted Kennedy degli anni ’60, che non molto si distanziano da quelle attualmente pronunciate dai nostri politici. Denso di riferimenti è Happy Days S.B. di Marzia Migliora, parte della grande installazione Lo spettro di Malthus, la gabbia, attualmente esposta presso Serlachius Museums a Mänttä in Finlandia. La frase Happy Days S.B., citazione dell’omonima opera teatrale di Samuel Beckett, è incisa sulle 4 facciate di un blocco di sale, comunemente utilizzato nell’allevamento dei cavalli come integratore alimentare: leccandolo, gli animali lo consumano fino a farlo completamente scomparire. L’opera rimanda a una visione illusoria e fugace della felicità e del denaro: il sale, infatti, è stato il primo oggetto di scambio e di commercio tra i popoli (da qui l’origine della parola salario). Happy Days, sarcasticamente, può riferirsi a questi giorni di paura e confinamento in Italia. La performer Rosy Rox, invece, ricorre al linguaggio del corpo e al suo conturbante valore simbolico, proponendo uno dei suoi esercizi in quarantena. AGILE diventa la protesta di un’artista che normalmente si nutre del rapporto con il pubblico e che trova, nella solitudine della sua casa, un ironico sfogo nel gioco semantico della cassa e della parola per testimoniare la condizione della donna e dell’artista: FRAGILE. Infine, Stay Woke di Marinella Senatore, tratto dalla serie di collage Can one led a good life in a bad life, realizzati con materiali raccolti durante le corali opere partecipative di The School of Narrative Dance, che riuniscono immagini di movimento e parole condivise durate i workshop. Stay Woke incita alla resistenza, a restare vigili: la silhouette di una danzatrice “combattente”, con le radici ben salde nella natura, si staglia su un fondo bianco puntellato di elementi visivi allegorici, dall’alveare al fiore che le copre il viso.

[1] Sovvertire il canone classico del binomio pubblico-privato è un imperativo del tempo sospeso che stiamo vivendo e sfocerà certamente anche in un cambiamento delle dinamiche tradizionali del rapporto arte-pubblico. È questa però una relazione imprescindibile, l’arte si nutre del suo pubblico ed ha senso di esistere solo se condivisa. Pertanto, utilizzare modalità pubblicitarie mainstream abitando gli spazi urbani d’affissione, in Language is a virus non è solo una strategia mimetica di appropriazione dello spazio pubblico da parte dell’arte per valicare le pareti del white cube, degli elitari luoghi deputati all’arte, ma una conditio sine qua non per mantenere aperta la necessaria relazione che l’arte ha con lo spettatore

[2] “il virus più pericoloso era il linguaggio” profetizzava l’icona della Beat Generation negli anni ’60 in Il biglietto che esplose, un romanzo anarchico in cui appunto sperimentava la sua tecnica del cut-up, ritagli veri di parole, di piccole frasi, che poi venivano mescolati cambiando il senso originale, ma creando forse un altro logico o illogico senso.