01 maggio 2023

Insultati. Bielorussia: le voci di un documentario militante

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Autrice del documentario “Insultati. Bielorussia”, la regista Caterina Shulha ci parla della situazione politica e culturale del suo Paese, al confine tra la guerra e il desiderio di libertà

Svetlana Tichanovskaja e Caterina Shulha

La Bielorussia è con Putin. No, la Bielorussia è guidata da un dittatore non eletto che non rappresenta il popolo bielorusso. Presentato in anteprima assoluta al Trieste Film Festival, il progetto “Insultati. Bielorussia”, prodotto da Dakota Film Lab con la regia di Caterina Shulha, nasce per far conoscere la terribile situazione politica in Bielorussia dopo le elezioni dell’agosto 2020.

“Insultati. Bielorussia” è una lettura drammatizzata di un testo di Andrej Kurejčik, sceneggiatore, drammaturgo e regista teatrale bielorusso. Un testo, portato in scena in 25 paesi del mondo, dove le immagini, quelle dei tg o dei video diffusi in rete, non trovano spazio. Qui è la parola a farsi immagine, grazie a sette artisti d’eccezione: Ambra Angiolini, Carla Signoris, Luca Argentero, Ivano De Matteo, Giacomo Ferrara, Stefano Fresi e Caterina Shulha.

9 agosto 2020. Lukašenko diventa presidente per la sesta volta. Ancora lui dopo 26 anni. Inizia qui “Insultati. Bielorussia”: un giorno come tanti, dove viene non-rieletto il presidente che “ci dà il salario, vi fa studiare, vi dà i libri e i giardini fioriti”. Il presidente “che garantisce la stabilità”. Dirige il documentario Caterina Shulha. Nata nel 1993 a Grodno, in Bielorussia, vive in Italia dal 2006. “Insultati. Bielorussia” è il suo primo lungometraggio come regista.

«Lukashenko non rappresenta il popolo bielorusso perché non è stato mai eletto». Caterina ci tiene a sottolinearlo. Nella sua voce, apparentemente più fredda di quella che avrebbe una donna mediterranea, tradisce la ferma indignazione di chi rivendica un diritto negato. Di chi si vede raccontato come non è. Di chi lotta in casa contro un dittatore e fuori contro un’informazione propagandistica.

Caterina Shulha

Per molti la Bielorussia è il Paese amico di Putin. Come racconti il popolo bielorusso?

«Fin da quando ero bambina abbiamo avuto un capo che si è imposto. Negli anni in Bielorussia è cambiato il modo di modo di vedere e di pensare. Una decina di anni fa, molti si erano arresi e sono emigrati. Non speravano che il Paese potesse cambiare. Quello che è successo due anni fa è stato grazie ai giovani che sono rimasti, che vogliono vivere la loro vita a casa loro.

Questo anche grazie a Sergei Tikhanovsky, marito di Svetlana Tikhanovskaya, che ha fatto sentire la sua voce e, per questo, è stato condannato a 18 anni di prigione. Solo per aver aperto un blog su YouTube dove chiedeva alla gente cosa volessero cambiare nel loro Paese. Piano piano le persone che venivano intervistate sparivano.

Ma due anni fa è cambiato qualcosa. I giovani hanno deciso di scendere in piazza in un Paese dove il concetto di manifestazione non era mai esistito. Queste proteste hanno ribaltato l’idea che Lukašenko aveva del nostro popolo. Non dico del suo Paese perché la mia Bielorussia non è il Paese di Lukašenko. Negli ultimi due anni le condanne sono aumentate: è passato a metodi ancora più drastici. Ho racconti diretti di persone anziane che vengono multate pesantemente sugli autobus perché leggono libri che parlano di rivoluzione, libri che fanno parte della letteratura mondiale. Si viene arrestati per un pantalone bianco e rosso: magari non è un pantalone di protesta, era semplicemente in vendita in un negozio. Non ci fai caso, lo compri e ti danno tre giorni di carcere.

Mi è stato raccontato di una coppia alla quale è stato regalato un passeggino rosso con piccoli disegni bianchi. Secondo i due poliziotti che li hanno arrestati con un bambino di sei mesi, è una forma di protesta.

So che sembrano racconti frutto di fantasia, ma accade nella quotidianità. Con l’aggravarsi della situazione in Ucraina, è cambiata l’opinione verso la Bielorussia. Due anni fa si parlava della battaglia che il popolo bielorusso stava portando avanti contro Lukašenko. Stanno ancora lottando. L’attenzione si è spostata sull’Ucraina, ma quello che non viene raccontato è che gli ucraini sono uniti ai bielorussi in questa guerra. Conosco tantissime persone che partono dalla Bielorussia e vanno a combattere in Ucraina. Il popolo bielorusso è con l’Ucraina, non contro».

In una scena viene pronunciata una frase: “Russi, amici o nemici?”. Cosa significa?

«A noi è sempre stato insegnato che i russi erano nostri fratelli e ora ti trovi costretto a uccidere uno con il quale magari andavi al campo estivo. Per tutti noi è davvero surreale. Da gente come Putin o Lukašenko ci aspettavamo di tutto ma, in fondo, pensavamo non sarebbe mai accaduto. Come se in Italia il Sud invadesse il Nord.

Tante famiglie sono composte da ucraini e bielorussi; dall’Ucraina si andava lavorare in Russia; l’Ucraina era un posto dove si andava in vacanza, dove avevi gli amici. Ora ci sono famiglie dove i cugini combattono tra loro. Perché Putin sta mandando a combattere ragazzi di vent’anni».

La “capa degli scrutini”, interpretata dalla Signoris, è realmente una donna di cinquant’anni nella Bielorussia del 2020? È così forte il divario generazionale?

«Sì. Il divario generazionale è molto profondo. I giovani hanno avuto accesso a strumenti diversi: hanno viaggiato, usano Internet. Hanno avuto accesso all’informazione internazionale. Ma c’è una fetta della popolazione, quella dei genitori e dei nonni, che a volte non sono mai usciti dal Paese. Non è tanto un aspetto economico, quanto il fatto che fin da piccoli ci viene inculcato che da noi si sta bene, che abbiamo tutto, che il governo ci dà tutto. Le persone grandi che guardano la TV di Stato, vedono Lukašenko che parla tutti i giorni facendo discorsi assurdi. Ma quella è l’informazione che arriva loro. Quella che arriva ai giovani è tutt’altra. Chi è uscito, ha visto che fuori il mondo è diverso. Questo crea un divario generazionale molto netto».

L’Ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite, pochi giorni fa ha nuovamente denunciato “gravi violazioni dei diritti umani in tutta la Bielorussia, privazione illegale della vita e numerosi casi di privazione arbitraria della libertà, tortura e maltrattamenti, nonché violenza sessuale e di genere, violazioni dei diritti alla libertà di espressione, riunione pacifica e associazione, e la negazione del giusto processo e della pari protezione della legge”.

«Quando il figlio di Lukašenko aveva 10 o 11 anni, e il padre lo portava con sé in quei pochi viaggi all’estero che ha fatto, veniva fotografato con la pistola alla cintura. Ho visto un video di Putin, atroce, dove mostrava i bambini ucraini descrivendoli come orfani di guerra che lui aveva salvato. Raccontava di bambini che vagavano da soli per i boschi, e che ora sarebbero stati accolti dalle famiglie adottive russe. È uno dei discorsi più atroci che abbia mai ascoltato. Questa è la realtà.

Per quanto riguarda la violenza sulle donne, è molto più usata quella psicologica. Ho notizie dirette, ad esempio, di una persona che è stata arrestata per un commento fatto due anni fa su Facebook, dove aveva scritto “Free Belarus”. Rischiava un anno e mezzo di detenzione. La pena è stata commutata in una multa che riusciranno a pagare in anni. In quei casi ti minacciano di portar via la famiglia e i bambini. Ma lo fanno sia con le donne che con gli uomini. Le donne sono maggiormente a rischio perché sono quelle che si trovano veramente a dover difendere i propri figli».

In Bielorussia nell’estate del 2022 oltre 18mila minori sono stati addestrati in campi patriottici militarizzati, dove bambini di 6 anni hanno imparato a sparare con le armi da fuoco. Qual è la reazione della popolazione?

«Le informazioni girano. Ma devi renderti conto che ad ogni palazzo, ad ogni angolo di strada, sono esposte bandiere bielorusse che non sono neanche quelle bianche e rosse del nostro Paese, ma sono verdi e rosse. A scuola ai bambini vengono insegnati canti che inneggiano a Lukašenko. Quando la tua vita cambia all’improvviso lo percepisci, ma quando accade lentamente non te ne rendi conto. Le persone iniziano a capire. Il problema è che la propaganda si innesta su un modo di diffondere l’informazione, di portare avanti una sorta di lavaggio del cervello, che già esisteva. È un problema culturale: è stato tutto fatto passare piano piano. Non arriva all’improvviso come arriva a noi ora in Occidente. In Europa tu leggi: campi militari dove vengono addestrati i bambini. È ovvio che è una notizia shock. In Bielorussia il lavaggio del cervello non è iniziato adesso: dura da quasi trent’anni. Ecco perché è più difficile rendersi conto della reale situazione».

Perché hai scelto di realizzare un lungometraggio di una lettura drammatizzata?

«È un progetto che è nato durante il Covid. Volevo portarlo in teatro, ma in quel momento già aver trovato gli attori che vedi, essere riuscita a riunirli a Roma per fare una lettura di tre ore, è stata un’esperienza bellissima ma non semplice. In quel momento era l’unica forma che potevo usare, ma era un’operazione che andava fatta. Stiamo iniziando a lavorare per portarla in teatro come evento di beneficenza, perché per me è importantissimo continuare a informare la gente comune sulla vera storia che vive il popolo bielorusso».

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