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Viviamo ancora nel sogno di Wanna Marchi: la docuserie su Netflix
Film e serie tv
«Vendimi, rubami i sogni e poi vendimi», la voce intensa di Daniela Peroni introduce così, con una appassionata invocazione che fa un po’ «Tu mi fai girar», le quattro puntate di “Wanna”, la nuova docuserie in streaming su Netflix, dedicata alla famosa e famigerata televenditrice. Il brano si intitola “Cinque minuti di te”, è stato composto da Don Antonio, al secolo Antonio Gramentieri, e sembra provenire dalle decadi favolose, gli anni ’60 oppure i ’70 trascorsi sull’ardente riviera romagnola. Ma se i processi della memoria spesso coincidono con quelli dell’immaginazione, si può anche ammettere che nulla di passato sia esistito veramente se non nella dimensione di una rievocazione, di una favola, un c’era una volta ma in questo momento. E infatti il pezzo, che tanto nel tono delle parole quanto nell’andamento delle sonorità è funzionale alla narrazione, sotto la patina vintage cela una assoluta contemporaneità, pubblicato su Youtube il 20 settembre 2022, il giorno precedente alla messa in onda del documentario diretto da Nicola Prosatore e scritto da Alessandro Garramone con Davide Bandiera.
«Rubami i sogni», vale a dire «Trasferiscili dal piano dell’immaginazione a quello della realtà», decisamente meno poetico, come spietatamente prosaico era il meccanismo ordito da Wanna Marchi e dalla figlia Stefania Nobile. Delle vicende giudiziarie ma anche di quelle private del mefistofelico duo si sa già quasi tutto, su Wikipedia c’è una biografia piuttosto dettagliata che conduce a decine di altre voci, nel caso si volesse approfondire. Ma più che sulla meticolosa ricostruzione delle trame e dei contesti, “Wanna” si focalizza sugli individui, trasformati inevitabilmente in personaggi per valorizzarne l’intrinseca potenzialità in chiave spettacolare, similmente a quanto accade anche per gli altri format documentaristici dal taglio analogo, sviluppati a partire dalla fulminante lezione di “Wild Wild Country”, il “Breaking Bad” dei documentari, con Osho nel ruolo di Walter White.
Il timbro esplosivo, insaporito dall’accento sibilante della provincia romagnola, il sorriso tagliato, aguzzo come le punte irte dei capelli dai colori accesi – un antieroe da porta accanto, un Joker via cavo –, le gambe corte e le braccia sottili sempre in movimento su un corpo spiritato di un’energia sotterranea. Tutto in Wanna Marchi era orientato a colpire lo spettatore. E per riattivarne la prossemica impetuosa, la docuserie è scandita da un ritmo sostenuto, tanto nella scrittura che nella regia, con rapidi riavvolgimenti e svolgimenti temporali, dalla prima 500 blu che significava libertà alle toghe di giudici e pubblici ministeri nelle aule dei tribunali. I flashback e i fastforward si restringono quindi sul presente, chiudendo sui volti ormai segnati e conosciuti ma sempre ambigui oltre che doppi – quattro occhi che guardano dritto e in direzioni opposte, come l’allucinato totem di un matriarcato distopico – della madre e della figlia, che rispondono vivacemente alle domande e alle sollecitazioni dell’intervistatore.
Impenitenti, persuasive e convinte, aggressive, spudorate e sboccate ben oltre la legittima vivacità borghese, Wanna e Stefania continuano a reggere anche oggi, nell’epoca degli schermi 4K, il loro ruolo dominatrici a favore di telecamera, che le fece affermare nelle cucine italiane all’alba delle televisioni private, frequenze sottili, distorte e pervasive, anche per quell’aura artigianale, diretta e domestica, rispetto alla magniloquenza ufficiale, fredda e professionistica della televisione di Stato. Ed è uno dei tanti, sfolgoranti paradossi che hanno formato la società e la cultura italiana, che proprio una rete privata, Canale 5, il primo canale del gigante editoriale Mediaset, abbia decretato la loro fine, per dipiù attraverso un programma fondamentalmente basato sulla grottesca frizione tra fiction e reale come Striscia La Notizia.
Insomma, la distanza tra spettacolo e spettatore era stata ormai erosa, percezione e pubblicità coincidevano, il marketing, causa e soluzione di tutti i problemi, prometteva di andare ben oltre, facendo letteralmente miracoli. E poi bastava veramente poco, una breve, apatica pressione di un piccolo tasto per cambiare canale così che, anche solo per qualche millesimo di secondo, da qualche parte nella retina, potessero casualmente sovrapporsi la scritta in grassetto “Numeri fortunati”, che compariva durante le trasmissioni di Wanna, Stefania e del Maestro Mário Pacheco Do Nascimento, e il volto rampante di Silvio Berlusconi, che giurava di amare l’Italia e il futuro degli italiani sopra ogni altra cosa, come da storico messaggio televisivo andato in onda il 26 gennaio 1994. A proposito di spettacolo, la scrivania e la libreria non si trovavano nel vero studio del Cavaliere, ad Arcore, ma facevano parte di un set allestito all’aperto, in un angolo appartato del parco della villa di Macherio.
Perché se Wanna e Stefania sono figure ampiamente digerite dal nostro recente passato, il fatto che siano state riprese da Netflix proprio adesso, vorrà pur dire qualcosa sulla loro adattabilità alla contemporaneità. Sull’ampio tavolo ovale del call center di Asciè, la fantomatica società costituita nel 1996 e che si sarebbe rivelata fatale, compaiono decine di telefoni squadrati. La casa di produzione Fremantle Italy, la stessa di X FACTOR e Italia’s Got Talent, ha ricostruito con grande cura drammatica l’ambiente. L’atmosfera è precisamente quella della seconda metà degli anni ’90 e l’impressione è che le telefoniste si siano allontanate per una breve pausa caffè oppure, sempre sulla falsariga del realismo, che abbiano precipitosamente lasciato i loro posti poco prima dell’irruzione della Guardia di Finanza.
Anche se cambiano i livelli del linguaggio, se la metanarrazione sembra subentrare alla narrazione, si tratta sempre di realtà e finzione. In questo senso, che gli stralci del processo inseriti nel documentario siano estratti da “Un giorno in pretura”, con il bollino del noto programma bene in vista, rappresenta un raffinato espediente che aggiunge un ennesimo strato al gioco di specchi. Wanna, Stefania e il Maestro, la triade ubiqua dell’occhio e del malocchio, sulla superficie dello schermo e nelle cavità carsiche del telefono, convincenti e assertivi, presenze concrete, individui in dialogo diretto con la moltitudine tranquillizzante e condivisa dell’audience.
E poi, dietro le scene, il multiverso della stanza delle telefonate, l’antro oscuro (nella ricostruzione della docuserie l’ambiente è sempre in penombra) dove la mefitica magia della speranza disattesa poteva diffondersi in segreto, anzi in privato, nella quotidianità problematica di chi paventava una forma fisica poco tonica o un figlio perso nella droga, come un incubo a più strati, materializzato attraverso la voce gracchiante dalla cornetta.
Come hanno fatto a cascarci? La domanda è: come hanno fatto a pensarci? Per comprendere il successo di un’impresa che sembra più disperata che incredibile, è necessario contestualizzare. Da una parte, l’allure di una imprenditoria spregiudicata, neometropolitana, fondata dal nulla e sul nulla – e che avrebbe rivelato il proprio fiato corto – alla quale Wanna e Stefania ambivano ad appartenere. Dall’altra, le tecnologie della comunicazione più diffuse dell’epoca, televisione e telefonia, due ambiti perfettamente ottimizzati e integrati a fin di truffa, dalle abili mani delle Marchi e del loro entourage.
E così, se nella fase ascendente dell’avventura corsara il sentimento da riversare nei flussi comunicativi era quello della paura, una volta accesa la luce doveva essere consequenziale la reazione dell’odio. In questi termini, gli amati/detestati Wanna, Stefania e il Maestro non solo hanno assunto i ruoli dei carnefici e dei capri espiatori ma hanno anche significativamente precorso di qualche anno certi personaggi e certe tendenze cresciuti ai margini dei forum online, nelle zone periferiche dei social network, nel cono d’ombra di un’attenzione selezionata, rigidamente delineata, incasellata e profilata – i redpillati, gli incel, i chad – per poi superare quella soglia di sicurezza e deflagrare al centro dello storytelling e della vita quotidiana, ancora una volta al bivio tra realtà e narrazione e finalmente in maniera trasversale, sulle home page da scrollare a colpi di pollici picchiettanti sugli smartphone.
Certo, rivedere oggi ciò che è successo ieri può indurre a una lettura viziata della cronologia ma, in fondo, è quantomeno divertente trovare un nuovo ordine tra i pezzi del puzzle. In una delle puntate della docuserie, l’ufficiale della Guardia di Finanza Piergiuseppe Cananzi pone l’enfasi su una cifra: 300mila. Sono le persone “schedate” dall’Asciè, il che potrebbe far venire in mente i faldoni polverosi raccolti nelle camere umide del KGB. E invece era già tutto digitalizzato.
Nella vicenda, un ruolo di primo piano fu giocato da Francesco Campana, il misterioso secondo marito di Wanna Marchi, scomparso ad agosto 2022 dopo 35 anni di relazione, condannato a tre anni di carcere poi indultati. Di lui si sa poco ma, a quanto si apprende dalla docuserie, era un programmatore informatico. Una parte fondamentale della complessa infrastruttura della frode si reggeva sui pilastri dell’archivio di dati e informazioni personali, carpiti “in buona fede” e conservati nelle memorie dei computer della società. Vedove senza i figli a casa, casalinghe di provincia over 45, questi i profili più adatti ai lucrosi scopi delle Marchi e del Maestro.
Funzionava con i numeri, le bustine di sale e i talismani, anche se in maniera ancora rudimentale, manuale più che analogica. Funziona ancora oggi, con i consensi al trattamento dei dati, i cookie e gli algoritmi che, tra i “contenuti suggeriti”, propongono le migliori offerte del momento per trasformare la vasca da bagno in una doccia, «Vendimi, vendimi i sogni».