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L’ultimo regalo di Martin Parr è stato il colore delle cose di tutti
Fotografia
Quando, nel 1956, Yves Klein, allora giovane pittore sperimentale, folgorato da un viaggio in Giappone e travolto dall’ossessione per i concetti di infinito, assenza e spazio assoluto, cercava il suo riconoscibilissimo blu oltremare, non poteva sapere che il tutto si sarebbe risolto in un brevetto industriale, registrato presso l’INPI – Institut National de la Propriété Industrielle di Parigi.
Più consapevole è stato Anish Kapoor che, nel 2014, assieme alla società britannica Surrey NanoSystem ha sviluppato il Vantablack, il “suo” nero composto da nanotubi di carbonio, in grado letteralmente di mangiare la luce. Anche il celebre artista britannico è un grande manipolatore e sperimentatore dei concetti di vuoto e di pieno, di luce e oscurità. Anche se stavolta è stato proprio il colore nero – e non il procedimento per ottenerlo – a essere registrato, diventando una sua esclusiva. Un altro gradino sulla scala che promette e porta alle soglie dell’immateriale.

In entrambi i casi, la tinta diviene marchio di fabbrica, sigillo riconoscibile ovunque della mano di questi due grandi artisti. Non importa quale sarà la forma o lo spazio prescelti. Capiremo sempre chi c’è dietro quell’opera. È stato così anche per altri autori, come per il rosso di Mark Rothko, il giallo di Wolfgang Laib e il bianco di Kazimir Malevič. Ma i colori hanno definito anche altri spazi simbolici, significanti, evocativi quanto funzionali. Il nero morte, il rosso del comunismo, il bianco del Papa, il rosso e bianco Coca-Cola (e di Santa Klaus) ma anche il rosa di Barbie e il blu Tiffany.
Eppure, nonostante la potenza e la pervasività, i colori hanno sempre e comunque bisogno di un appiglio, di un sostegno, di una substantia. E questo vale anche per Klein e Kapoor. La materia stessa è ancora ineludibile. In una consequenzialità brutalmente gerarchica ma sistemica non c’è colore, brillante o opaco, oscuro o etereo senza nuda massa e senza freddo spazio.
Ma non per Martin Parr. Con lui le cose sono diverse. Morto da poche settimane, per il geniale artista britannico, nato nel 1952 a Epsom, Surrey, protagonista di numerose mostre nei più grandi musei del mondo – Centre Pompidou, Tate Modern, MoMa, Victoria and Albert – e autore di celeberrime raccolte – The Last Resort, Common Sense, Small World, Think of England, Luxury, solo per citarne alcune – il colore ha sempre giocato un’altra partita. Esso è sempre sfuggito, sgattaiolato via, scappato proprio da tutti quegli oggetti ingombranti, kitsch, banali, palesemente fuori luogo e fuori focus delle sue foto. E come è potuto succedere?

Spesso è stata messa in risalto soprattutto la grande attitudine documentale dello sguardo di Parr. Le terre dello Yorkshire, il nonno fotografo e il padre bird-watcher gli avevano trasmesso l’ossessione per il particolare, la ricerca del dettaglio. Ma già qui, la prima inversione, la prima deviazione imprevista. Dopo la fase del bianco e nero a cavallo tra i ‘70 e ‘80 – The Non-Conformist, Home Sweet Home – Parr sembra porsi un obiettivo apparentemente impossibile. In collezioni come Common Sense e The Last Resort, Parr tenta di cogliere un tratto, una connotazione, una caratteristica predominante nel soggetto per antonomasia informe, cangiante, indefinibile, sgusciante: la massa.

«La fotografia è sempre una finzione, anche quando dice la verità». È possibile? No, eppure lui ci è riuscito. Non si tratta di soggetti, di sfondi, di luce o di ambientazione. Famiglie operaie al mare, picnic, rifiuti, vestiti luccicanti, sedie sgargianti, ombrelloni, occhiali, bicchieri, calzini. È quasi una magia, anzi una stregoneria potremmo dire. Vedere qualcosa che altri non vedono, non colgono eppure riuscire a mostrarcela.
Come? Innanzitutto il tempo. Se in genere un fotografo si connota per il kairòs, il tempo propizio dello scatto, dell’attimo magico e immortale, Parr ha sempre seguito chronos, il tempo lineare, scorrevole, a intervalli. Il tempo numerico che, da quantitativo, diviene qualitativo.
Riusciva infatti a farsi trascinare, a immergersi nel flusso continuo della massa che, lentamente, lo risucchiava, lo portava a sé, lo accoglieva nelle sue “viscere”. Era l’unico modo per fissare su pellicola qualcosa che altri vedevano soltanto come sfondo, come quinta inessenziale dell’esistente. «Mi interessa ciò che le persone fanno quando pensano che non stia succedendo nulla».

Tutti noi siamo stati, in un modo o nell’altro, irretiti dall’occhio spietato di Parr. Tutti ci siamo riconosciuti in quelle atmosfere squallide e opprimenti – Small World -, perché ognuno di noi, inevitabilmente, si è trovato qualche volta «Between people, waste and hot dogs».
E ognuno di noi, qualche volta, si è lasciato trascinare da quella folla rumorosa, sempre uguale eppure sempre cangiante. Ognuno ha allora abbassato le difese, ha permesso una prossimità con l’altro, con gli altri, opprimente e inaccettabile in altre condizioni. Ed è proprio in quel momento, in quel preciso istante, da selfie collettivo, sformato e deforme, senza angoli e prospettive liminali che esce il colore di Parr.
Saturi, kitsch – Luxury, British Food – per non dire assordanti e sgarbati. Sono gli stessi colori dei cartelloni, dei banner, dei commercial, di quella filosofia NEW!, brillante e in vista che Parr riproduceva con il flash in pieno giorno.

Ma, in realtà, è la stessa estetica da advertising, da cartellonistica da compulsive shopping che imita quello spazio ultra, quella meta-dimensione, quella tinta unica che Parr ha disvelato prima di tutti. Non è sociologia o antropologia. È estetica pura, netta. Non c’è un vero racconto, nessuno storytelling, nessuna narrazione. È forma purissima.
Un meta-colore che avvolge e contorna, che assorbe come una polvere di stelle, che si posa su ogni superficie. Un Vantablack policromo, universale ma, soprattutto, di tutti. Agito e ripetuto da tutti.
Una consapevolezza che è andata lentamente perduta nel tempo, spenta, interrata dalla calce e dalle scale di grigi. Basta guardare i colori Pantone degli ultimi anni – Mocha Mousse, Peach Fuzz, Viva Magenta, Very Peri – o quello del 2026, il Cloud Dancer. Un bianco morbido, «Equilibrato e luminoso».

Eppure quel fuoco, quel μῖγμα (migma), il miscuglio cromatico in fondo ribolle ancora sotto ogni superficie. È bastato poco, una campagna elettorale vincente, quella di Zhoran Mamdani, a tramortire i nostri occhi, dunque ad aprirli, con quella cromatura giallo-viola e blu-arancio dei suoi banner e manifesti.
Come in fondo è servita proprio la morte di Parr a scatenare sui nostri feed online un uragano di rossi Coca-Cola, di gialli Kodak, di blu Oreo, di viola Milka, di verdi Arbre Magique. Centinaia, migliaia di foto, di views, di condivisioni, decine di gruppi di appassionati che condividono le loro produzioni à la Parr, nel tentativo (sempre riuscito) di riprodurre quel colore, quella sensazione, che è di tutti, che tutti abbiamo dentro.
Una sorta di grande tempesta sinaptica in rete, in cui la massa fotografata – da Parr e dai suoi cultori – e le moltitudine in rete si sono mescolate, riunite, riaffermando attraverso tutti i colori e nessuno in particolare, la propria esistenza, la propria presenza nel mondo.
Un’ultima grande opera collettiva, ben diversa dai manufatti di Klein e Kapoor che, scovati in qualche museo, qualche piazza o su un catalogo, si accendono potenti e prodigiosi come torce, come bracieri di antichi templi nella notte della ragione.
No, l’ultima opera di Parr, il suo testamento è stato in fondo donarci la possibilità di riaprire gli occhi e osservare le cose. Tutte, belle, brutte, semplicemente le cose. La vita che scorre davanti a noi.












