27 dicembre 2023

Un artificio profondamente umano: a Firenze, le fotografie di Olivo Barbieri

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Nella mostra personale ospitata a Villa Bardini di Firenze, il grande fotografo si confronta con la filosofia del linguaggio di Wittgenstein. Per una ricerca di se stessi, attraverso le immagini

Olivo Barbieri, site-specific_ROMA
Olivo Barbieri, site-specific_ROMA

Già nel saggio Artificio e natura (1968), Gillo Dorfles notava come i rapporti tra uomo, natura e oggetto fossero stati definitivamente messi in crisi dalla tendenza a vivere sempre più in un mondo artificiale. Oggi, che anche a livello visuale la linea di confine tra naturale e artificiale sembra ormai indistinguibile, risulta ancora più interessante approfondire il lavoro di quegli artisti che hanno indagato questo spazio interstiziale ben prima della proliferazione di immagini prodotte dall’intelligenza artificiale. Tra questi, Olivo Barbieri, protagonista di Pensieri diversi, una mostra a carattere retrospettivo, ospitata fino all’11 febbraio 2024 a Villa Bardini, a Firenze. Curata da Marco Pierini, con il coordinamento scientifico di Alessandro Sarteanesi, l’esposizione è accompagnata da un catalogo bilingue (italiano/inglese), edito da Magonza, in cui è riportata un’interessante conversazione tra il fotografo e il critico letterario Andrea Cortellessa sul tema del “pensare diverso”.

Olivo Barbieri, viaggiatore delle immagini

Nato nel 1954 a Carpi (Modena), Barbieri ha sempre fatto dell’utilizzo esplicito di espedienti visivi artificiali (alterazione coloristica, illuminazione non naturale, sfocature e fuoco selettivo, sovraesposizione, uso di plastici e rendering, prospettiva a volo d’uccello con scatti dall’elicottero) una delle caratteristiche peculiari delle sue fotografie “di paesaggio”. Fin dai primi anni Ottanta si incontrano questi accorgimenti artificiosi: errori dichiarati, i quali, più che sotto l’etichetta onnicomprensiva di fotografia di paesaggio italiana, risultano comprensibili attraverso una specifica chiave linguistico-filosofica.

Il suo lavoro sull’immagine, muovendosi tra illusione e rappresentazione del reale, è un’indagine sull’atto del vedere piuttosto che una restituzione realistico-identitaria. L’attenzione alla luce artificiale, il contrasto cromatico tra cielo e architetture o l’utilizzo di colori saturi e non naturali rimangono tra le caratteristiche principali di Barbieri, il cui occhio si è sviluppato anche attraverso numerosi viaggi in Oriente (Tibet, Cina, Indonesia) iniziati proprio alla fine degli anni Ottanta.

Olivo Barbieri, Zhanjiang, China, 2000

Questo rimbalzare tra Oriente e Occidente, cercando analogie più nella omologante sfera dei consumi che in quella delle tradizioni culturali affini, risulta chiaro nel percorso espositivo della mostra fiorentina, che si concentra sulla produzione degli ultimi 25 anni. Le foto della serie Wet Market (2000), scattate in Cina, affiancano quelle dei Centri Commerciali sulla Via Emilia (1999); quelle di case abbandonate a Detroit (2010) comunicano con quelle della serie Landfill (2013), dedicate a una discarica indonesiana abitata da mucche.

Olivo Barbieri, Jatiparang Semarang, Indonesia, 2013

Ma dove il discorso sulla natura dell’artificio diventa inevitabile è nella serie site specific_ (2004-2017), dedicata alla forma della città vista dall’alto, e nelle fotografie di elementi caratteristici del patrimonio paesaggistico italiano, come le Alpi e i Faraglioni di Capri. Qui Barbieri non solo attua un cambio di prospettiva ma, attraverso alterazioni di cui fa sempre uso e mai abuso, trasforma lo spazio urbano e naturale in qualcosa di incerto e sorprendente. L’artificio gli serve a mettere in luce aspetti visivi che altrimenti risulterebbero difficilmente percepibili, ribadendo il confine labile tra oggetto, percezione del reale e rappresentazione.

Olivo Barbieri, site specific_FIRENZE
Olivo Barbieri, site specific_FIRENZE

La sua attenzione allo spazio va oltre la materialità concreta, analizzando (di riflesso) differenti modelli sociali, percepiti come alienati e alienanti. Le sue foto di paesaggio non sono cartoline, non perseguono un intento descrittivo prevedibile. Nella serie Capri (2013) gli elementi naturali sono immersi in una dominante cromatica arancione che sovverte i rapporti canonici tra oggetto reale e finzione rappresentativa, sperimentando l’ambivalenza, anche linguistica, della visione. Ancor più chiaramente che nelle foto degli anni Ottanta, qui il suo uso dell’artificio punta a enfatizzare l’ambiguità e la precarietà di questi luoghi iconici, piuttosto che a sottolinearne il carattere identitario. Nel creare immagini equivoche l’obiettivo di Barbieri non è mai limitatamente decorativo, ma assume la valenza di un vero e proprio lavoro filosofico, inteso in termini prettamente wittgensteiniani.

Che cosa sto vedendo?

Se nella prima fase della sua breve ma intensa carriera – culminata con la pubblicazione del Tractatus logico-philosophicus (1921) – il filosofo del linguaggio Ludwig Wittgenstein (1889-1951) escludeva l’errore linguistico attraverso l’applicazione di un metodo assoluto, a partire dall’inizio degli anni Trenta rinnega la logica estrema e si rivolge di nuovo al mondo, in maniera multiforme. È il cosiddetto “secondo Wittgenstein”, che culmina nelle postume Ricerche filosofiche (1953), in cui l’errore viene recuperato come fattore determinante per individuare la confusione filosofica nascosta nelle forme del linguaggio. Non a caso nel 1931 il filosofo viennese appuntava la seguente riflessione, poi raccolta in Pensieri diversi, volume da cui la mostra trae titolo e ispirazione: «Il lavoro filosofico è propriamente – come spesso in architettura – piuttosto un lavoro su se stessi. Sul proprio modo di vedere. Su come si vedono le cose (E su cosa si pretende da esse)».

Questo vale anche per Barbieri, sempre alla ricerca di un’estetica personale che sia però consapevole del proprio spazio-tempo. Riproponendo il suo lavoro con opere di grandi dimensioni, il fotografo induce nello spettatore lo stesso ragionamento, invitando a chiedersi di fronte a ogni sua immagine: “Che cosa sto vedendo? Che cosa pretendo da quello che vedo?”.

Olivo Barbieri, Tibet, 2000
Olivo Barbieri, Tibet, 2000

In questa attenzione alle condizioni di visibilità, la fotografia è analizzata come un fatto linguistico che non può essere mai pienamente definito, poiché è pieno falsi indizi che inducono al dubbio. Eppure questa ambiguità è sempre il risultato di un lavoro calibrato, che non punta al caos, a un’indistinta confusione. La fotografia di Barbieri non vuole imbrogliare lo spettatore, quanto piuttosto aiutarlo a porsi delle domande che lo ri-guardano.

Per Wittgenstein, una delle fonti principali dell’incomprensione linguistica è il fatto che la nostra grammatica manca di “perspicuità” e questo ci porta a non vedere chiaramente l’uso che delle parole facciamo. Per Barbieri vale una riflessione similare, ma in ambito fotografico-visuale. E se si tiene a mente questo nucleo concettuale, che gravita attorno a una possibile definizione di “grammatica del vedere”, risulta più facile la lettura del suo lavoro.

Inoltre, in una recente conversazione, Barbieri mi faceva notare che, oltre a porsi questioni linguistico-filosofiche, «I fotografi dovrebbero interrogarsi su cosa sia “immagine” oggi, da un punto di vista tecnico. Di certo non è fotografia, perché non si tratta più di scrivere con la luce, ma di scrivere con i numeri».

Olivo Barbieri, ALPS GEOGRAPHIES AND PEOPLE, 2019
Olivo Barbieri, ALPS GEOGRAPHIES AND PEOPLE, 2019

Questa consapevolezza che il proprio lavoro è in continuo mutamento (esattamente come il mondo che vuole rappresentare) e che è impossibile trovarne una e una sola definizione, non può che ricondurre di nuovo al “secondo Wittgenstein” che, allontanandosi dalla purezza cristallina della logica del Tractatus – un mondo ideale dove non esiste movimento e trasformazione – sceglie di uscire, muovendosi sul “terreno scabro” del linguaggio reale, su cui l’attrito del pensiero permette di camminare e interrogarsi in maniera fattuale.

Mettendo definitivamente da parte la dicotomia netta tra naturale e artificiale, uno dei meriti della fotografia di Olivo Barbieri è indurci a pensare che sia più interessante il cambiamento che la staticità. La sua attenzione alla trasformazione del mondo, e della sua stessa immagine, non può che ri-guardarci.

La mostra di Olivo Barbieri sarà visitabile a Villa Bardini di Firenze fino all’11 febbraio 2024.

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