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Non è un’opera di Paul McCarthy, anche se, per quanto è ripugnante, si direbbe di sì. E non ha nemmeno la firma di Tom Friedman, che è già più sobrio, sebbene alla mostra “Arts & Foods” di Milano abbia proposto il suo Big Big Mac che metterebbe paura anche al più accanito dei bulimici.
Qui è tutta roba vera, ha pure un nome. Si chiama: The ranch house burger, confezionato dalla Cheesecake Factory. E sta in buona compagnia con altri hamburger monster (con dettagliata spiega di ingredienti e numero di calorie) selezionati dal Guardian per la classifica dei “più grandi e peggiori hamburger americani”. Abbiamo scelto questo perché è particolarmente evocativo del mondo che ruota intorno all’oggetto in questione e perché indubbiamente richiama anche certa arte dei nostri tempi, attenta a non perdere mai d’occhio vizi e perversioni dell’oggi. Che, per quanto si possa spingere sull’idea di “nutrire il pianeta” e di ridistribuire le risorse alimentari, in genere hanno la meglio. Basti pensare che ci sono cliniche dove si va per “perdere peso”, come si usa dire pudicamente, dove per perdere un chilo si sborsano mille dollari o mille euro.















