Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- Servizi
- Sezioni
- container colonna1
Kehinde Wiley è giovanissima, nata nel 1977, americana, e per pochi altri giorni in mostra al Brooklyn Museum con una personale intitolata “A New Republic”. Nuova, perché? Perché ci sono i neri. Ve la buttiamo giù così, brutalmente, perché in fondo è proprio questa la verità: pensiamo all’uguaglianza, cerchiamo il capro espiatorio quando si tratta di razzismo ma poi quando abbiamo alla porta il “diverso” funziona per lo più con gli stereotipi che gli appiccichiamo. Perché scegliamo Wiley? Perché come aveva fatto nei primi anni 2000 il giapponese Yasumasa Morimoura, mettendosi al posto delle opere d’arte per il principio che nel mondo occidentale l’opera è solo quella che arriva dall’Ovest, stavolta questa artista, nel Paese più “democratico” del mondo, rimette l’accento su questioni che non sono affatto risolte. E lo fa prendendo in prestito Memling o gli scultori francesi, e persino i santi italiani. Sostituendoli con i “coloured” del ghetto, con i loro abiti da rapper, i tatuaggi, gli orecchini. Un cortocircuito esagerato, carico, ma poco ironico. Per rimarcare nella storia la presenza di una civiltà che, dal Mediterraneo in giù, davvero poco esiste.


















