15 ottobre 2012

La realtà semplificata di Reality

 
Reality è un film duro, ma forse anche un po' facile. E Matteo Garrone può, e dovrebbe, fare di meglio. Questo è quanto pensa Ludovico Pratesi che ha conosciuto il giovane regista romano diversi anni fa. E al quale scrive una lettera aperta dalle colonne di Exibart

di

Caro Matteo,

oggi ti seguo da lontano, con il vivo ricordo della visita che feci a casa tua, quando eri ancora pittore, sollecitato da tuo padre, il grande Nico Garrone. Eri timido allora, sognante e sospeso, sembravi cercare un tuo spazio al di là delle cose, oltre la realtà. Poi hai aperto l’Archimede 80, realizzavi cortometraggi con una banda di amici originali come te, prima del cinema vero, quello che ti ha permesso di realizzare l’Imbalsamatore, uno dei film più straordinari dello scorso decennio. Duro, rigoroso, visionario, feroce: un capolavoro assoluto ambientato nell’ombra che si annida in un meridione fetido e perverso, che hai poi esplorato con più mezzi, ma meno precisione in Gomorra. Rassicurato dal suo successo, quest’anno hai di nuovo tentato la strada dell’entroterra campano, ma questa volta non per raccontare le ferite profondissime della Camorra e i suoi rituali terribili nella loro sconcertante quotidianità, ma le illusioni del proletariato napoletano, attratto dalle facili e patetiche illusioni di ricchezza e successo del Grande Fratello, Così hai firmato Reality, che il festival di Cannes ha valorizzato con il Premio della Giuria, come era accaduto per Gomorra. Un film ambizioso, sociologicamente ben costruito, ma con pochi colpi d’ala, schiacciato da una vena narrativa che non vola perché impigliata nella gabbia della cronaca. Un inizio memorabile, con la carrozza di Cenerentola che attraversa la periferia partenopea per raggiungere la festa di matrimonio in un resort di cartapesta. Lì, una galleria di volti sudati, abiti grondanti di lustrini, gesti e voci volgari che il tuo occhio da grande regista coglie con la stessa spietatezza che ti guidava nell’Imbalsamatore. Ma poi il racconto ti ha tradito, e il ritmo del film si è abbassato, annegato nella banalità di una storia patetica, ma non per questo significativa. La descrizione senza interpretazione non è sufficiente, è come un campo seminato mai innaffiato per far crescere il grano: diventa uno sterile esercizio di stile, che l’assordante tam tam mediatico non riesce a rendere fecondo.

Matteo, lascia la cronaca e torna alla visione, per ridarci le scene del nano che disseziona i morti, lancinanti e luminose come coltellate. Il nostro Paese sembra essere precipitato nel pozzo senza fondo di una corruzione che non conosce vergogna, una decadenza psicologica, sociale e morale che non ha mai vissuto, nemmeno negli anni più bui del medioevo descritti da Dante Alighieri. Pasolini ci aveva avvertito, drammatico profeta di un’Italia diventata vecchia senza essere cresciuta già negli anni Ottanta, e ora misero cadavere agonizzante. Chi meglio di te può raccontare il senso di nausea che ci coglie ogni mattina davanti a scandali degni di un basso impero senza splendore, a pugnalare la vita pubblica di una nazione che ha sostituito Fellini con Vanzina, Calvino con Volo, Pasolini con Saviano, Berlinguer con Bersani, Dario Fo con Beppe Grillo? Matteo, affonda il dito nella piaga, racconta l’orrore di una decadenza buia e triste con lo stesso sguardo sospeso e coraggioso che avevi a vent’anni. Solo chi raggiunge il fondo dell’abisso può risorgere. Ti aspettiamo.

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