23 ottobre 2012

Tutti davanti la lavagna

 
La lavagna è uno spazio aperto per scrivere pensieri, appunti, brevi o lunghe riflessioni. Ma la lavagna è anche un oggetto ambiguo, temuto nell’infanzia. Faceva la sua comparsa a scuola, termine che può avere relazioni, più o meno intime, con l’arte.
Per iniziare con le scritte alla lavagna, non mettendoci dietro nessuno, ma anzi proponendo di starci davanti per scriverci, abbiamo chiesto a Paolo Aita una breve riflessione sulla lavagna stessa

di

Per presentare questo nuovo spazio di Exibart, Adriana mi ha chiesto di scrivere sulla e sul tema della lavagna. Essendo uno degli oggetti che più ho temuto nella mia giovinezza, è una piccola vendetta. Ne ho sempre avuto paura perché funziona al contrario, il gesso è bianco, dunque è l’esatto contrario dell’inchiostro che segna la pagina bianca. Ne ho avuto paura perché la lavagna è il luogo in cui scrittura diventa pubblica, quindi è esposta, messa in piazza, e schiude pensieri che, al contrario, il quaderno serra. Era il luogo in cui il privato diventava pubblico, dove i saperi venivano verificati, e ciò è sempre angosciante. Infatti il suo nero è categorico: può essere superato solo pensando che si rinnova ogni giorno, perché, a parte lo stridio del gesso, sulla lavagna è tanto possibile scrivere quanto cancellare. Ci si salva dalla lavagna solo pensando che è senza memoria. Se penso però alla lavagna come demarcazione, è ancora peggio. Su questa venivano segnati buoni e cattivi, oppure c’era uno solo di noi che veniva messo dietro la lavagna, come se fosse esiliato dal resto della classe ed escluso; quindi improvvisamente il suo nero diventava tombale, definitivo l’ostracismo che testimoniava. Ma c’era comunque una classe, un’entità collettiva.

Ma questo è evidentemente un luogo dedicato all’arte contemporanea, così mi pongo una domanda in questa mia prima uscita: È ancora possibile parlare di classi nell’arte contemporanea? Chi fa parte di cosa? Appartengo a una generazione cresciuta con la linguistica nelle tempie. Lo Strutturalismo si sentiva capace ed efficiente quando riusciva a nominare e a classificare tutto lo scibile, così vai a coniare definizioni, movimenti, settori. Era confortante trovare nei libri d’arte, come in una topografia, le solite dinastie: dopo il Cubismo c’era il Futurismo, poi Dada e Surrealismo. Le solite classificazioni, insomma. Ma i collage di Matisse sono Fauves o no? Picasso neoclassico è ancora rivoluzionario? Agli angoli c’erano le questioni non coperte dalla lavagna/cultura.

E oggi? È ancora possibile un parlare pubblico da parte dell’arte? Quando parliamo di arte per chi, per quanti parliamo? Oggi forse è utopia addirittura parlare del sacrificio che richiede la rappresentabilità. Evidentemente per entrare in un gruppo bisogna essere identificabili, dunque avere dei caratteri atti alla distinzione, e in ogni caso leggibili. Non so quanti oggi possano e vogliano essere identificati e affiliati. Sembriamo piuttosto schegge impazzite, per cui oggi invece auspico, agogno, la presenza di una lavagna, che riesca a farci sentire classe, anche dall’altra parte. Dalla lavagna, poi, i messaggi da rivolgere a tutti o a nessuno, convinti però, magari per un attimo, che saranno ascoltati e compresi, condivisi magari…

Paolo Aita

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