29 luglio 2010

libri_interviste Biblioteche, queste sconosciute

 
A un anno dalla pubblicazione, Le piazze del sapere è alla quarta ristampa. Un errore previsionale della casa editrice o un segnale forte degli operatori culturali sulla necessità di ripensare la funzione della cultura per lo sviluppo sostenibile? Antonella Agnoli propone nuovi confini e compiti per le biblioteche pubbliche. Riflessione che tocca più in generale le istituzioni culturali...

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Le piazze del sapere ha avuto un successo
straordinario: in giugno ha compiuto un anno ed è già alla quarta edizione…

L’ultima edizione è stata rivista perché la
crisi economica impone una riflessione sui comportamenti culturali: molte le
persone, oggi, non frequentano la biblioteca tanto per prendere in prestito
libri, quanto per incontrare le altre persone, la usano come luogo dove stare,
dove fare delle cose insieme. Negli Stati Uniti la crisi ha riportato in
biblioteca moltissime persone della classe media, quella più colpita, che la
frequentano sia per prendere i libri in prestito che per connettersi a internet
in modo gratuito, avendo a disposizione personale esperto che aiuta a compilare
correttamente una richiesta di assegno di disoccupazione o un curriculum vitae.

L’altra novità, è la diffusione dell’e-book e di
dispositivi digitali per la lettura del libro. Io credo che sia sbagliato fare
un dibattito intorno alla possibilità che l’e-book possa far scomparire o meno
il libro cartaceo. Ci sarà il libro, ci sarà l’e-book. Non c’è dubbio però che
quest’ultimo mette in discussione la catena del libro, da chi lo scrive a chi lo
stampa, da chi lo distribuisce, a chi lo diffonde.

Questi due fatti dimostrano quanto sia necessario rivedere
continuamente le proprie posizioni e cambiare, quanto sia estremamente
stimolante capire che non si può stare fermi. Le piazze del sapere parla molto della differenza tra
il modo di concepire le biblioteche in passato rispetto a oggi. E questo
discorso vale anche per qualsiasi altra istituzione culturale, come i musei,
che storicamente rimanevano fermi per secoli, mentre oggi devono continuamente
reinventarsi, modificarsi.

Uno studio sull’esperienza museale dei visitatori
americani ha messo in luce il fatto che il 70% del tempo all’interno del museo
viene speso interagendo con il palmare dato in dotazione all’ingresso e solo il
30% con l’opera direttamente. Questo significa che anche per i musei la
fluidità del contenuto e il cambiamento imposto dalla rivoluzione digitale
costituiscono un dibattito importante.

Come nel caso del libro, è plausibile ipotizzare che, in
un certo momento, tutte le opere del mondo saranno digitalizzate in modo tale
che una persona, da casa o da qualsiasi altro luogo, possa scegliere la sua
visita virtuale. Il punto cruciale è che il nostro è un paese che non legge. Il
10% della popolazione legge moltissimo, il 40% legge occasionalmente; il
restante 50% non accede a nessun tipo di consumo culturale, non solo la
lettura, ma anche il cinema, il teatro, i musei.

Personalmente, ho voglia di interessarmi e occuparmi di
quel 50%, e della fascia di lettori occasionali, per cercare di allargare la
base dei consumatori culturali, facendo in modo che gli utenti occasionali
diventino più stabili e che i cittadini che non leggono entrino per lo meno
nella fascia degli occasionali. Questo è difficilissimo da realizzare, perché
significa combattere contro un mondo che va da un’altra parte, contro
l’ignoranza, contro il modello omologante proposto dalla televisione, dove la
cultura e lo studio non sono ritenuti strumenti necessari per affermarsi
socialmente, per crescere, diventare qualcuno.

Le biblioteche possono essere luoghi trasversali dove
ampliare la base di pubblico culturale, perché sono accessibili a tutti,
gratuite e visitabili senza nessuno scopo o bisogno preciso. Da questo discende
la necessità di un progetto, a livello di allestimento e di comunicazione, per
fare in modo che ciascun visitatore non si senta intimorito, abbattendo le
barriere psicologiche che caratterizzano i luoghi della cultura. La biblioteca,
rispetto agli altri luoghi culturali, come il museo, il teatro e il cinema, è
anche avvantaggiata perché al suo interno propone l’accesso a tutti questi
differenti linguaggi.

Se io stessa fossi un operatore di questi altri
contenitori culturali, lavorerei moltissimo con la biblioteca, perché costruita
come una piazza del sapere, potrebbe essere il luogo deputato alla formazione e
all’incontro con i potenziali pubblici futuri. Una soluzione estremamente
interessante, anche se impossibile da realizzare senza una fortissima volontà
progettuale, sarebbe quella di costruire una piazza del sapere – che può essere
un’intera città – dove non esistano targhe distintive per indicare i diversi
luoghi culturali – museo, biblioteca, sala prove, cinema, teatro – ma dove ogni
cittadino possa muoversi in uno spazio interculturale, scegliendo poi la
fruizione specifica. Questo modello implica che ci sia un’unica visione,
un’unica strategia condivisa nel profondo.

Gli specialisti di ognuna delle singole discipline possono
occuparsi della propria area, ma la direzione, l’indirizzo deve essere unico,
condividendo il grande valore dell’interdisciplinarietà e della crescita nello
scambio di saperi. Anche in un momento di strutturale carenza di risorse, dove
le persone su cui investire sono poche e spesso precarie, questa politica di
condivisione interculturale porterebbe un grande beneficio economico nella
misura in cui si offrono servizi comuni. L’arte contemporanea, per esempio, è
uno dei settori più autoreferenziali che esista.

Negli ultimi decenni l’arte contemporanea è stato un
grandissimo fenomeno di moda che ha generato un ampio pubblico delle fiere,
delle grandi mostre e dei grandi musei. Tuttavia, si tratta spesso di un
pubblico scarsamente preparato, che non affianca la fruizione culturale alla
ricerca e alla lettura sull’artista e la sua opera.

Lo stesso fenomeno si verifica con i festival della
letteratura, visitati da centinaia di migliaia di persone che tuttavia non
diventano lettori o fruitori di mostre. Una delle cose che mi piacerebbe
realizzare, ma che in Italia, pur avendone parlato, non si è mai riuscito a
fare, è un servizio nato negli anni ‘60 a Grenoble, poi rapidamente diffuso nei
paesi nordici: l’artoteca, il servizio di prestito delle opere d’arte. Non si
tratta, ovviamente, di grandi artisti, spesso si tratta di fotografie, stampe o
sculture, ma è un servizio con un presupposto di fondo molto importante: quello
di far entrare nelle case di tutti, specialmente delle fasce a basso reddito
della popolazione, immagini e forme espressive differenti.

Credo che siano proprio questo tipo di servizi a
modificare i comportamenti culturali, molto più delle visite scolastiche alle
mostre, perché la struttura che forma i bambini è la famiglia. Nella biblioteca
San Giovanni di Pesaro era stato avviata un’esperienza interessante: un prestito
temporaneo da parte di un gruppo di privati di una trentina di opere d’arte
contemporanea. La scelta di introdurre anche questo linguaggio a fianco dei
materiali librari e audiovisivi già presenti rispondeva a un duplice obiettivo:
riconoscere l’importanza dell’educazione all’arte contemporanea, facendo
familiarizzare il grande pubblico, dai bambini ai nonni, dalle badanti russe
agli amanti del jazz, con espressioni artistiche a cui normalmente non avrebbe
accesso e, in secondo luogo, arricchire gli spazi della biblioteca, già di
grande qualità.

Il San Giovanni aveva scelto di non “confinare”
le opere in uno spazio apposito, che sarebbe diventato una piccola galleria
riservata gli appassionati. Al contrario, aveva inserito le opere in tutta la
struttura, proponendo al pubblico un percorso di scoperta di questi lavori. Per
esempio, la sezione ragazzi ospitava il teatro senza cielo e pavimento di
Grazia Toderi, mentre in altre zone erano presenti, Vanessa Beecroft, Euan
Mcdonald, Eva Marisaldi, Diego Perrone, Cristiano Pintaldi, Wolfgang
Tillmans e altri.

Purtroppo ora i quadri non ci sono più, sono rimasti solo
i segni sul muro: forse non si è capita e valorizzata fino in fondo
un’esperienza di collaborazione pubblico-privato in un luogo come la biblioteca.

Gli economisti hanno dimostrato che la curva di utilità
del consumo culturale è crescente: non si ha un bisogno iniziale ma ogni
consumo successivo fa aumentare il desiderio a fruire di beni culturali. Questo
implica che quanto prima le persone – quindi i bambini – iniziano a entrare in
contatto con la cultura, tanto più da adulti saranno avidi consumatori.

Le biblioteche stanno lavorando molto su questa
considerazione. Per esempio, la rete nazionale dei pediatri ha lanciato il
progetto Nati per leggere per cui i medici, accanto ai prodotti alimentari e
curativi, prescrivono alle madri anche libri per l’infanzia.

È necessario capire se attraverso questo progetto sia
possibile accrescere la consapevolezza della famiglia rispetto all’importanza
di continuare a leggere anche negli anni successivi l’infanzia. Mi chiedo se
sia sufficiente l’esposizione culturale solo nei primi anni di vita; ho
l’impressione che, per divenire lettori abituali, si debba comunque rimanere
all’interno di un ambiente favorevole e che alimenta il consumo culturale.

Se ci soffermiamo tra l’infanzia e adolescenza, credo
che la scuola e la famiglia abbiano una corresponsabilità. Inoltre, è
fondamentale vivere in città dove l’offerta culturale sia diversificata e
fortemente accessibile per i ragazzi. L’Olanda ha ovviato il problema della
bassa capacità di spesa dei giovani studenti attraverso i voucher per i consumi
culturali; le collezioni permanenti dei musei inglesi sono gratuite…

C’è stato un tentativo di trasformare i musei – molto di
più che le biblioteche – in luoghi dove poter mangiare, pieni di oggetti da
comprare. È stato fatto come investimento commerciale, per attirare più
pubblico. Invece bisognerebbe creare un progetto, che io chiamo la piazza del
sapere, dove, attraverso strategie diverse che vanno dalla didattica al caffè,
alla conferenza, si crea un luogo in cui stare bene.

Il benessere è fondamentale perché aumenta la
predisposizione a fruire anche in maniera differente tutto quello che viene
proposto. Non so se questi progetti vengono condotti con la consapevolezza di
creare dei luoghi alternativi alle solitudini dei luoghi, alternativi alla
città di oggi in cui non si vive più bene. Questo potrebbe forse anche proporre
il museo in una maniera diversa.

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