05 novembre 2007

libri_interviste Con parole sue

 
Il critico domanda, l’artista risponde. Il critico “affermato” concede, il “giovane” critico cede. Al mito della parola pura, che discende in picchiata per schiantarsi sulla terra della scrittura. La morte della (critica d’) arte celebra il suo requiem con un’intervista?...

di

Sono ben ottanta gli artisti interpellati, ed è solo il primo volume di un dittico, Contemporanei, che raccoglie alcune delle conversazioni condotte nell’ultimo decennio da Paolo Vagheggi. Lo stile è ben definito: cappelli introduttivi, domande secche, risposte brevi, il tutto nella sintesi dettata dal medium. Almeno il pretesto consiste in un evento di stretta attualità. Il dialogo con Tony Cragg, ad esempio, pur andando a parlare di politica e scienza, origina dalle polemiche innescate dalla scultura ideata per il Palio di Siena del 1998. O, più banalmente, si tratta d’incontri avvenuti in occasione di mostre personali: quella di Kosuth a Villa Medici nel 1999, per limitarsi a un’unica citazione. Dal seminato de la Repubblica escono due inediti, le interviste a Bonito Oliva e Celant. La copertina del libro di Paolo VagheggiAvvitamento palese e palesato, dove il critico interpella il proprio omologo. Fatte salve le differenze tra giornalismo e critica “pura”, con le miriadi di sottoclassi che rendono talmente sfaccettato il sistema dell’arte da farlo apparire come un oliato cuscinetto a sfera. La scelta di Miriam Mirolla per L’arte c’est moi è conseguente, con un indice nel quale si susseguono senz’alcuna distinzione il curatore e lo storico, l’artista e il gallerista, con la scheggia impazzita Iké Udé a rimescolare le carte.
Il termine “intervista” mostra una polisemia che sfocia nella disseminazione di significati fluidi, che tracimano da un significante troppo poco capiente per un sistema, quello succitato dell’arte, tutt’altro che sistematico. Così, il caramelloso obiettivo democratico della divulgazione -in specie nella sua declinazione “giornalistica”, per adottare la distinzione che Capasso propone in Opere d’arte a parole, opponendogli il “dialogo”- di un’arte apparentemente astrusa esibisce la propria ingenuità, potenzialmente tramutabile in demagogia. Una strategia radicalmente alternativa è messa in atto da De Dominicis, che vanifica le domande di Mirolla con una serie di “Sì”, qualche “No” e un finale “Boh!”. Provocazione del genio-artista, si dirà, ma non nei confronti della povera patria composta da un pubblico non necessariamente adorante, bensì all’indirizzo del critico, inteso come funzione e funzionario sistemico. Insomma, un modo per richiamarlo all’ordine, o almeno al lavoro che lo sostenta. La copertina del libro di Angelo CapassoÈ ciò che, in una forma più delicata, richiede Rebecca Horn a Capasso: usa pure i virgolettati, però il testo scrivitelo da solo (non sarà andata esattamente così, ma la coppia Horn-Capasso vale come pretesto). Ovviamente, i materiali preparatori possono essere esibiti, ma in un contesto dove svolgano il ruolo di testimoni d’una proposta ermeneutica che deve assumersi le proprie responsabilità. Così ci pare vadano lette le interviste che seguono i saggi che Simonetta Lux dedica a una ventina di artisti in Arte ipercontemporanea. E si noti che in molti casi i dialoghi non sono realizzati dalla stessa Lux.
Tutto ciò non per dire che l’intervista sopperisce alla latitanza della critica, il lavoro di Obrist (forse) lo dimostra. E tuttavia, è tutt’altro che innocente la retorica incardinata su un ideale fonocentrico appioppato all’intervista, protagonista il dialogo come scambio tendente alla trasparenza paradisiaca, che si offusca nella scrittura terrena. Con il corollario, talora imbarazzante, dell’intervistatore intento a lottare contro i mulini a vento, nel tentativo di salvaguardare la presunta purezza del suo rapporto orale con l’artista.
Dall’avvitamento nelle sue molteplici figure si smarca un ultimo libro. Che in certo modo rammenta uno dei testi più rappresentativi della critica per come l’ha ridefinita Achille Bonito Oliva nelle “interviste” raccolte in Conversation Pieces, senza dimenticare il seminale Autoritratto di Carla Lonzi. La copertina del libro di Francesca BonazzoliFrancesca Bonazzoli, nell’Inganno della scimmia, non propone alcun dialogo intessuto “di persona”. Sono stralci biografici, lettere, scambi verbali dove la voce non è mai realmente quella dell’autrice. O, meglio, la sua penna (di) critica assume su di sé l’onere del ventriloquismo. Ritratti di arti e artefici si susseguono in lampi brevi e talora abbacinanti. Odiamo e udiamo Hitler discutere con chi gli mostra le opere di Klimt, mentre sfuma l’idea di organizzarne una retrospettiva, poiché ebrei sono i soggetti rappresentati e degenerato il suo fare artistico. Munch espone la propria poetica carnale al dottor Jacobson, chiamando in causa Nietzsche e Dio. Sofonisba Anguissola racconta la sua vita a van Dyck, in una Palermo che la pittrice non può più vedere. Il tessuto fra la trama delle vicende storicamente verificabili e l’ordito d’invenzione è districabile, ma necessita uno sforzo che si può affinare asintoticamente. Per giungere dove? All’essenza volatile della critica, ma soprattutto alla comprensione della differenza fra testo e tessuto.

articoli correlati
Le interviste di Obrist

marco enrico giacomelli


I volumi segnalati
Francesca Bonazzoli, L’inganno della scimmia, Skira, pp. 149, € 15
Angelo Capasso, Opere d’arte a parole, Meltemi, pp. 235, € 19,50
Simonetta Lux, Arte ipercontemporanea, Gangemi, pp. 504, € 40
Miriam Mirolla, L’arte c’est moi!, Avagliano, pp. 280, € 15
Paolo Vagheggi, Contemporanei, Skira, pp. 260, € 24

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 39. Te l’eri perso? Abbonati!

[exibart]

1 commento

  1. del 27-06-2007

    Dal libricino illuminante di Gillo Dorfles sulle interviste ad artisti per capire l’arte moderna, si è giunti ormai a una produzione in serie di libri che hanno tutti la medesima impostazione: l’intervista.

    Ne scaturisce un tipo di interpretazione che libera il critico e lo storico dell’arte dall’impegno di fare precise valutazioni, demanda ad altri i problemi insoluti e fa sì che nasca un fenomeno che chiamerei di “arte dichiarata”, edita su carta o digitale, che pian piano prende piede rispetto a quello che normalmente si definisce “arte visuale”.

    Non avremo quindi un nuovo Vasari che ci spiegherà l’arte del 2000, ma una nomade entità mentale conoscitiva dell’arte, polverizzata in mille scritti, testimoni acritici – sia pur interessanti – di una visione giornalistica del mondo.

    Una certa selezione, è vero, passa nel numero e nella qualità delle interviste, ma esse nel loro complesso condizionano e condizioneranno sempre di più in futuro gli operatori del settore.

    La tecnica che era la peculiarità dell’artista perderà valore a scapito delle parole. Già adesso artisti di fama sorprendono per dichiarazioni rilasciate che anticipano e disorientano il ruolo dei critici e degli storici dell’arte contemporanea.

    Pensiamo solo a quella di Stockhausen, che dal 2000 gira ancora per le bocche di tutti i personaggi dell’arte, qualificati e non.

    Titolo, quindi, azzeccatissimo: Opere d’arte a parole.
    Lo scrissi per il libro di Angelo Capasso, ma vale un pò per tutti i libri dei critici d’arte in circolazione e quello che ho letto anche nel tuo articolo.
    Interviste come critica d’arte, presunta professionalità di critico che altro non sono che maschere, usate per apparire grandi e disinvolti. Intellettuali disimpegnati da ricerche, studi e approfondimenti quanto affermati e riveriti nello stesso tempo.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui