07 maggio 2000

Dal 20 aprile 2000 al 25 giugno 2000 “Roy Lichtenstein. Riflessi – Reflections” “Norman Bluhm. Opere 1948-1999” PAC – Padiglione d’Arte Contemporanea, Milano

 
Il PAC di Milano conferma il ruolo che ha riassunto negli ultimi anni per la conoscenza critica dei più importanti fenomeni artistici contemporanei con questo duplice evento che mette a confronto due artisti americani, Roy Lichtenstein e Norman Bluhm, esponenti di tendenze per molti aspetti antitetiche dell'arte statunitense del dopoguerra

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Si è inaugurata il 20 aprile scorso nelle sale del PAC di Milano un’interessante retrospettiva dedicata a Roy Lichtenstein, uno dei grandi maestri della Pop Art americana.
La mostra, prodotta in collaborazione con il Chiostro del Bramante di Roma, che ne ha curato la realizzazione, e il Kunstmuseum di Wolfsburg, raccoglie una cinquantina di opere tra dipinti, disegni, collages e sculture, molte delle quali inedite in Italia, eseguite dall’artista a partire dagli anni ’60 sino alla sua morte, avvenuta nel 1997.
Motivo conduttore della selezione, curata da Diane Waldman (suo l’ efficace saggio nel Catalogo Electa), è il “riflesso”: dall’immagine riflessa nello specchio, alla riflessione sulla propria identità di artista. Infatti il tema dello specchio lega fra loro le opere non solo per gli elementi iconografici ma soprattutto per un’imprescindibile unità di implicazioni culturali e filosofiche che hanno segnato il percorso di Lichtenstein nella elaborazione del suo linguaggio artistico.
Roy LichtensteinLo specchio dunque, interprete e simbolo della mostra, lo si può intendere anche come metafora della Pop Art stessa giacché la pittura di Lichtenstein non interpreta la realtà, ma la registra ovvero la “riflette”.
Nel suo ruolo di commentatore/dissacratore delle icone-simbolo della cultura dei mass-media, attraverso la rappresentazione di oggetti di uso comune e di personaggi mutuati dai fumetti, di cui adottò, esasperandoli, linguaggi e segni, egli fece della sua arte lo strumento speculare di quella realtà che corrispondeva alla mentalità e ai modelli della prospera middle-class americana, sorta dopo la seconda guerra mondiale e alla quale egli stesso apparteneva, che fu fortemente condizionata dal fenomeno del consumismo.
I soggetti di questi lavori, accanto all’importanza di rispecchiare la società borghese, avevano un significato per i riflessi che contenevano poiché annunciavano una ricerca che fu essenzialmente formale.
Non si deve credere infatti che i contenuti dell’arte di Linchtenstein siano da ricercare nel suo narrare il quotidiano, rappresentando gli oggetti di uso comune. Il ritratto della realtà, i cui temi sono mutati nel corso degli anni seguendo e “adattandosi” agli interessi e allo sviluppo della sua ricerca , è stato solo un pretesto per sviluppare un linguaggio segnico sintetico che intensificasse il dialogo tra l’oggetto e la sua rappresentazione, vale a dire tra ciò che era percepito come oggetto reale in uno spazio reale e l’illusione dell’oggetto sulla tela.
Ma torniamo allo specchio. È un gioco molto sottile questo di Lichtenstein, un gioco di rimandi tra la realtà e la sua immagine. In queste opere infatti la realtà prende forma dentro lo spazio vuoto della cornice che isola la superficie riflettente. Da questa vengono rimandate nel mondo reale le immagini degli oggetti e dei luoghi che lo costituiscono confinati, solo provvisoriamente, nella bidimensionalità dell’irrealtà dello specchio e della tela.
Un “gioco di specchi” che lo segue per tutta la sua carriera e che viene a rappresentare l’ambito più complesso della sua opera.
Negli anni ’60, quando la sua preoccupazione primaria era quella di catturare l’aspetto effimero dell’immagine o di sovvertirne la vera natura utilizzando materiali diversi, Lichtenstein inizia a esplorare la definizione di specchio e dei suoi riflessi con opere in cui allo specchio si allude ma non lo si rappresenta mai direttamente. È di questi anni la serie dei Collages Rowlux, stupendo esempio di ricerca e sperimentazione, dove gioca con il significato letterale di riflesso usando un materiale plastico che simula la luce e riduce la realtà ad astrazione ricreandola sotto una nuova forma tangibile.
Negli anni ’70 inizia a lavorare ad una serie di immagini basate esclusivamente sullo specchio in cui rappresenta il riflesso in sé, eliminando qualsiasi riferimento all’oggetto riflesso. Da inizio così alla serie dei Mirror, forme astratte che rappresentano solo l’”idea” di uno specchio forzando lo spettatore a ricrearsene l’immagine.
Le opere degli anni successivi, la serie dei Reflections, sono il frutto del lavoro di un artista maturo che si mette a confronto con la propria arte, creando volontarie dissonanze con l’accostamento di forme di riproduzione pittoriche e meccaniche. Lichtenstein si pone in rapporto dialettico anche con gli artisti del passato, di cui ha peraltro sempre positivamente subito l’influenza: Cézanne, Matisse, Mondrian, Picasso, per fare solo qualche nome, dei quali spesso riprende le opere riducendole a icone popolari e trasformandole in spunti di riflessione nell’ambito del più vasto interesse che dimostrò verso questi artisti.
Un cenno meritano le sculture, alle quali Lichtenstein si dedicò fin dai suoi esordi come artista Pop, poiché è in queste opere che risulta evidente la matrice della Pop Art, che trovò origine e ispirazione anche nelle teorie di Marcel Duchamp che affermava che qualsiasi oggetto ordinario, estrapolato dal suo contesto, può assumere valore di “opera d’arte”. Rappresentando oggetti di uso comune come la teiera, le tazzine, lo specchio, l’artista gioca con vari livelli di ambiguità, sostituendo ciò che è funzionale con ciò che non lo è e contrapponendo forma completa a forma incompleta, piattezza a volume.
Con il senso dell’umorismo che lo caratterizza, Lichtenstein in questi lavori si occupa di realtà tridimensionali creando interpretazioni scultoree di immagini bidimensionali. Tradusse così ogni genere di motivo sovvertendo la natura della scultura e ridefinendone il significato.
In conclusione, che dire di questo artista che nel suo ritratto ha scelto uno specchio per raffigurare il proprio volto? Se è vero che con gli autoritratti gli artisti ci hanno fornito qualche indizio circa la loro personalità, con il suo, che non riflette nulla, Lichtenstein ha probabilmente voluto spostare lo sguardo sullo spettatore per restituirgli ciò che è stato il suo patrimonio visivo e in ciò renderlo complice.

Norman BluhmAccanto alla retrospettiva dedicata a Roy Lichtenstein, il PAC di Milano continua la sua indagine sugli sviluppi dell’arte statunitense del dopoguerra presentando una rassegna di opere di Norman Bluhm, l’artista esponente della seconda generazione dell’espressionismo astratto, spentosi nel febbraio dello scorso anno.
La mostra che costituisce un contraltare a quella di Lichtenstein, senza essere una forzatura di una convivenza, peraltro sempre accuratamente evitata dai due protagonisti, innesca inevitabilmente un rapporto certamente non comparativo ma semmai dialettico tra due posizioni per molti aspetti antitetiche dell’arte dell’ormai secolo scorso.
La scelta delle opere di questa antologica, la prima in un museo europeo, consiste in una selezione di cinquantuno lavori su carta, provenienti da collezioni americane e italiane, datati dal 1948, anno in cui Bluhm iniziò la sua carriera, sino al 1999, fra i quali numerosi inediti, compresi due disegni realizzati poco prima della sua scomparsa.
Perché opere su carta? Norman Bluhm. si è a lungo confrontato con la tela, e per di più di grande formato, che caricava di energia prepotente e passionale. La risposta ce la suggerisce James Haritas, curatore della mostra, nell’apertura del suo saggio nel catalogo che accompagna l’esposizione: “Le opere su carta di Norman Bluhm, oltre a rivelare grande abilità nel disegno e nell’uso del colore, sono espressione di un entusiasmo spirituale e di un appassionato tentativo di creare dipinti che trascendano l’esperienza ordinaria. Insieme ai monumentali lavori ad olio, quelli su carta sono da considerarsi tra le opere pittoriche più importanti dell’epoca moderna”.
Norman Bluhm ha spesso alternato momenti di affezione alla tela a periodi, spesso molto lunghi, dedicati esclusivamente ai lavori su carta. Le opere del PAC, anche se con qualche lacuna cronologica, vogliono ricostruire lo sviluppo del concetto di immagine dell’artista rispetto alla pittura sottolineando da un lato la transizione dalla figura all’astrazione e dall’altro il drammatico impatto dell’espressionismo astratto sui lavori degli anni ’50 e ’60
Fin dai primi disegni si manifestano gli elementi essenziali del suo approccio artistico: linea incisiva, composizione aperta. E colore. Bluhm mostra infatti, in tutto il suo percorso, un uso del colore che, in rapporto agli artisti statunitensi, sfugge ad ogni classificazione rimanendo ineguagliato e lo distingue sia dagli espressionisti astratti più anziani, sia dagli esponenti della sua e delle generazioni successive che si caratterizzarono per la purezza del minimalismo e della pittura monocromatica.
Sicuramente il rimando alla natura e alla figura umana traspare inevitabile. In queste carte emerge con assoluta evidenza, insieme al forte aspetto coloristico, un grande senso del paesaggio e affiorano grandi figure astratte derivate dallo studio della forma femminile.
Nel corso della fase più tarda della sua carriera, a partire dagli anni settanta, Bluhm ha realizzato via via forme più sensuali che assomigliavano a corpi mutanti nello spazio, costruiti con grande rigore architettonico e una padronanza formale che gli veniva da anni di esperienza. È evidente in queste ultima opere l’accordo tra l’energia di Pollock e De Kooning e l’eredità europea. La pittura del passato fu per lui fonte inesauribile: gli esiti di Matisse, Picasso, Cézanne rappresentarono punti da ampliare e sviluppare secondo la lezione spaziale appresa da Pollock. Effettivamente si può affermare che Bluhm riuscì a portare la pittura espressionista astratta ad un livello successivo espandendone il formato, che dopo Pollock era tornato a quello della pittura da cavalletto, e ampliandone l’articolazione in termini di libertà personale e di passione spirituale.
In questo senso i lavori su carta, che l’artista amava chiamare “suitcase art”, si possono considerare non solo “semplici” preparativi di opere su tela, giacché la presenza di dittici e trittici e le varie tecniche di realizzazione illustrano il processo creativo che sta dietro le tele di grandi dimensioni, ma sicuramente opere d’arte pienamente realizzate.
Nato a Chicago nel 1921 da madre italiana, originaria di Lucca, e da padre russo (della Georgia), Bluhm studiò architettura con Mies Van der Rohe presso quello che sarebbe diventato il prestigioso Illinois Institute of Technology.
Dopo la parentesi della guerra,, durante la quale si arruolò nell’aviazione americana, riprese gli studi che interruppe nuovamente nel 1946 per intraprendere un viaggio in Italia. A Firenze studiò nudo all’Accademia di Belle Arti. Nel 1947 si recò a Parigi dove si iscrisse all’Ecole des Beaux Arts e in seguito all’Académie de la Grande Chaumière e dove aveva affittato insieme a Sam Francis, il vecchi studio lasciato da Jean Paul Riopelle.
La prima personale la tenne presso la Galleria Di Leo Castelli a New York nel 1957 dove espose ancora nel ’59 e nel ’60. Altre importanti esposizioni furono in seguito alla Martha Jackson Gallery di New York nel ’70 e nel ’71.
Alla fine degli anni ’50 iniziò anche ad esporre in numerose mostre europee. Fra le tante, vale la pena di ricordare quella tenuta presso la Galleria del Naviglio a Milano nel 1959 e quella alla Galleria Notizie di Torino del 1961.

Fino al 25 giugno
Norman Bluhm. Opere su carta 1948-1999
Milano, PAC-Padiglione d’Arte Contemporanea, via Palestro 14
tel. 02.620.86.537 fax 02.783.330
Orario: 9,30-18,30. Chiuso il lunedì.

Ingresso (Lichtenstein e Bluhm) intero L. 10.000 (€ 5,16) – ridotti L. 5.000 (€ 2,58) – scolaresche L. 3.000 (€ 1,54)
Catalogo Edizioni Gabriele Mazzotta L. 35.000 (€ 18,076) in mostra, L. 50.000 (€ 25,823) in libreria


Emanuela Filippi

[exibart]

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