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27
maggio 2008
fino al 31.V.2008 Fulvia Mendini Como, Roberta Lietti
milano
Dodici variazioni sul tema nuziale. Una quadreria contemporanea, allusiva e simbolica, di mezzi busti familiari. E un “linguaggio istantaneo”, a organizzare un teatro delle pose bidimensionale e stancamente ripetuto...
Fulvia Mendini (Milano, 1966) ritorna alla pittura di genere, concentrandosi sulla valenza simbolica del matrimonio, unione e insieme cerimonia. La prospettiva frontale, inclemente, schiaccia i gruppi nuziali in una piattezza pittorica estrema, fatta di tratti somatici invarianti, utilizzati come pattern e moduli compositivi. In una pulizia formale di segni asettici e grafici, Orange blossom si rivela come un gioco artificiale di citazioni eterogenee, dalla moda al cinema, fino alla letteratura.
Anche se lo stile scarno -figlio di una linearità impersonale- rischia perennemente di crollare in una sua versione semplicistica, disinfettata, sgrassata, l’approccio basico alle forme scopre, sotterraneamente, un istinto sintetico e un’ambizione di comprimere nell’arte un “concetto d’arte”. Ma ciò che vediamo è, purtroppo, molto distante dalla teoria.
La galleria di ritratti di rappresentanza a tendenza geometrica ha un’identità annacquata. La “lingua emblematica” di Mendini, che procede per elementi reiterati in una ricorrenza insistita, costruisce un prototipo umano, immaginario e pittorico, di bassa tenuta. Il risultato è una serie di composizioni sintattiche, grammaticalmente scorrevoli, ma stucchevoli dal punto di vista stilistico. Le strutture formali pedanti rendono però piacevole e disimpegnata la reiterazione di un unico modello di prova: volti smunti, occhi vuotati dall’esaurimento nervoso, colli ellissoidi, mascelle ovoidali e nasi abbozzati.
La fissità ieratica dello sguardo e la frontalità emblematica -insieme a uno sfondo squillante e sgombro- proiettano i personaggi in una dimensione anacronistica, astorica, decontestualizzata. La regia dei quadri di maniera di Mendini si blocca però a una fisionomia tediosa e a un’antropologia che non travalica l’epidermide lucida e impermeabile dell’acrilico steso per toni complementari. A testimonianza che la composizione perfetta delle forme non supplisce all’assenza di un impianto narrativo.
L’intento maliardo dell’utilizzo di forme e di figure elementari finisce per perdersi in minuzie compositive, cavillose e vacuamente esornative, tralasciando la perizia tecnica. Il decorativismo estetizzante delle ricerche precedenti si riassesta nelle stampe degli abiti, mentre gli insetti, gli uccellini e le tematiche floreali nipponiche ritmano gli sfondi piatti.
Japonisme, pattern ordinari e miniatura ossessiva non tamponano la debolezza di questa reinvenzione del ritratto: difficile immaginarsi l’evoluzione di un lavoro che sembra senza via di scampo, che appare destinato a ripetersi, identico a se stesso. Se il taglio grafico di Mendini dei mandala e dei lavori d’animazione produceva un interessante campionario fitomorfo, gli esperimenti di ritrattistica la consegnano a una pericolosa staticità che il richiamo alla flatness non riesce a giustificare.
I riferimenti posticci alla cultura “alta” -Shakespeare, l’Oriente, il cinema d’autore, l’haute couture– tradiscono la prospettiva pop(olare), tentando di trasfigurare un puro gioco di attrazione.
Anche se lo stile scarno -figlio di una linearità impersonale- rischia perennemente di crollare in una sua versione semplicistica, disinfettata, sgrassata, l’approccio basico alle forme scopre, sotterraneamente, un istinto sintetico e un’ambizione di comprimere nell’arte un “concetto d’arte”. Ma ciò che vediamo è, purtroppo, molto distante dalla teoria.
La galleria di ritratti di rappresentanza a tendenza geometrica ha un’identità annacquata. La “lingua emblematica” di Mendini, che procede per elementi reiterati in una ricorrenza insistita, costruisce un prototipo umano, immaginario e pittorico, di bassa tenuta. Il risultato è una serie di composizioni sintattiche, grammaticalmente scorrevoli, ma stucchevoli dal punto di vista stilistico. Le strutture formali pedanti rendono però piacevole e disimpegnata la reiterazione di un unico modello di prova: volti smunti, occhi vuotati dall’esaurimento nervoso, colli ellissoidi, mascelle ovoidali e nasi abbozzati.
La fissità ieratica dello sguardo e la frontalità emblematica -insieme a uno sfondo squillante e sgombro- proiettano i personaggi in una dimensione anacronistica, astorica, decontestualizzata. La regia dei quadri di maniera di Mendini si blocca però a una fisionomia tediosa e a un’antropologia che non travalica l’epidermide lucida e impermeabile dell’acrilico steso per toni complementari. A testimonianza che la composizione perfetta delle forme non supplisce all’assenza di un impianto narrativo.
L’intento maliardo dell’utilizzo di forme e di figure elementari finisce per perdersi in minuzie compositive, cavillose e vacuamente esornative, tralasciando la perizia tecnica. Il decorativismo estetizzante delle ricerche precedenti si riassesta nelle stampe degli abiti, mentre gli insetti, gli uccellini e le tematiche floreali nipponiche ritmano gli sfondi piatti.
Japonisme, pattern ordinari e miniatura ossessiva non tamponano la debolezza di questa reinvenzione del ritratto: difficile immaginarsi l’evoluzione di un lavoro che sembra senza via di scampo, che appare destinato a ripetersi, identico a se stesso. Se il taglio grafico di Mendini dei mandala e dei lavori d’animazione produceva un interessante campionario fitomorfo, gli esperimenti di ritrattistica la consegnano a una pericolosa staticità che il richiamo alla flatness non riesce a giustificare.
I riferimenti posticci alla cultura “alta” -Shakespeare, l’Oriente, il cinema d’autore, l’haute couture– tradiscono la prospettiva pop(olare), tentando di trasfigurare un puro gioco di attrazione.
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a cura di Ivan Quadroni
Roberta Lietti Arte Contemporanea
Via Diaz, 3 – 22100 Como
Orario: da martedì a sabato ore 10.30-12 e 15.30-19
Ingresso libero
Info: tel. +39 031242238; info@robertalietti.com; www.robertalietti.com
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