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Che impatto hanno i musei statali sull’economia italiana?
Musei
Senza ombra di dubbio, Franceschini ha grandi ambizioni per questo suo nuovo mandato. Non è un caso, infatti, che uno dei primi interventi pubblici che lo hanno visto protagonista sia stato dedicato all’economia dei Musei in Italia. Al centro dell’incontro, una ricerca condotta dal Boston Consulting Group che ha evidenziato l’impatto che i Musei statali hanno sull’economia italiana.
Un impatto importante. Forse anche troppo.
Le cifre chiamate a testimoniare l’importanza del comparto museale hanno sicuramente ottenuto un effetto WOW, ma non sono mancate critiche, anche molto fondate, alle metodologie applicate per raggiungere i risultati presentati. Senza entrare nei dettagli delle “cifre” e delle premesse metodologiche, tuttavia, l’episodio può essere utile per approfondire una questione che rischia di essere messa in secondo piano. Per capire di cosa stiamo parlando, è forse il caso di arrivarci per gradi:
Grado 1: L’importanza del dato.
Negli ultimi anni Musei e Istituti Culturali hanno finalmente mostrato una maggiore permeabilità al concetto di “misurazione” e all’esigenza di mirare ad obiettivi misurabili. Non si può far altro che plaudire a tale evoluzione, ma bisogna anche tener conto di alcune criticità che possono essere generate dai processi di monitoraggio. Nella gestione delle organizzazioni (non importa se pubbliche o private), è necessario poter misurare le grandezze più importanti per il perseguimento degli scopi sociali. In un’epoca in cui ognuno di noi ha almeno un giorno nella vita indossato un contapassi è anche superfluo ribadirlo. Ciò che forse è invece importante sottolineare è che i dati, per essere utili, devono poter misurare degli obiettivi strategici per l’organizzazione. Questo perché si presume che le informazioni in essi contenute abbiano una funzione di supporto per le scelte da attuare.
Grado 2: L’importanza del dato per la crescita
Proseguendo con il nostro discorso, appare chiaro dunque che obiettivi organizzativi e grandezze misurate devono avere una forte coerenza interna. Non andiamo dal meccanico con una radiografia dei nostri denti, né tantomeno misuriamo le chilocalorie del cibo che buttiamo nella spazzatura. Se questo è chiaro a tutti, lo è forse un po’ meno al Ministero, perché centrali nelle sue misurazioni sono grandezze che non necessariamente “rispecchiano” l’intera attività museale: visitatori, visitatori paganti, ricavi, ricavi netti, ricavi da servizi aggiuntivi. Queste grandezze sono certo utili, ma dicono poco o nulla rispetto al messaggio di condivisione della conoscenza, della partecipazione dei visitatori, del coinvolgimento della struttura sociale territoriale, la capacità di dare avvio a processi di crescita generati dai Musei. Quelle evidenziate sono dimensioni di flusso e di ricavo, dimensioni che potrebbero andare benissimo per una piccola gelateria, non certo per un grande Museo.
Selezionare degli indicatori ha un valore fondante per l’intera struttura organizzativa: ogni addetto, ogni responsabile, ogni risorsa in qualsiasi modo coinvolta nelle attività, tenderà automaticamente a valutare le performance della struttura secondo quelle metriche. Pensate a come è cambiato il mondo da quando per misurare il successo online si è passati dai visitatori singoli sulle pagine ai like e alle condivisioni. Tutto un altro modo di comunicare. Questo ci porta direttamente al prossimo step della riflessione, vale a dire:
Grado 3: L’importanza del dato per la crescita e per la gestione orientata al risultato
Un’organizzazione è pronta a misurare le proprie performance quando può disporre di flussi di dati che misurino grandezze rilevanti per l’attività organizzativa e che siano affidabili e periodicamente rilevabili. Un flusso di informazioni con periodo incerto oppure non condiviso da tutta l’organizzazione non fa altro che creare incertezze, e questo, nella maggior parte dei casi, determina un sostanziale abbandono del dato che rimane appannaggio degli appassionati.
Il flusso di dati deve consentire a ciascuna risorsa all’interno dell’organizzazione di poter fidarsi delle informazioni che è possibile desumere dalle elaborazioni. Vale per il cassiere di un museo, che deve poter confermare che il proprio lavoro è stato svolto in tempi molto rapidi (numero di biglietti venduti in un giorno) e deve essere valido per l’amministrativo, che può affermare di aver ridotto i tempi medi dei pagamenti delle fatture evase e delle fatture ricevute. Deve essere un banco di prova per il direttore scientifico, che può valutare quanto i visitatori siano aumentati, quanto abbiano pagato, e quanto abbiamo imparato o quanto sia a loro piaciuta la visita, e deve essere uno strumento per l’Amministrazione che può così valutare il rapporto tra gli investimenti erogati e i benefici sociali, economici e culturali ottenuti.
Viene dunque da chiedersi la reale utilità di una ricerca commissionata all’esterno, che non ha sensibilizzato nessun museo sull’importanza del dato, che ha estrapolato secondo delle grandezze che non sono condivise delle informazioni che non rispecchiano la reale funzione sociale e statutaria dei Musei.
La risposta è in una sola parola: comunicazione.
Ma la comunicazione ha senso se trasmette un messaggio, altrimenti finisce con l’assomigliare ad un fastidioso rumore di fondo. Un utilizzo sbagliato degli strumenti di analisi e di monitoraggio, e dei dati “in percentuale sul PIL” può trasformare la reale opportunità che una sana misurazione può rappresentare per il nostro sistema museale nella minaccia di inaffidabilità e mancanza di fiducia.
Un’alternativa è possibile: avviare una ricerca che permetta ai Musei di identificare delle grandezze su cui vogliono essere misurati; definire gli indicatori attraverso i quali queste grandezze possono essere quantificate o approssimate; individuare le procedure operative di raccolta, rilevazione ed elaborazione dei dati; proporre i risultati di tali indagini e comunicarli sia internamente (dati disaggregati) che esternamente (con i bei grafici a torta che piacciono a tutti).
Un colosso come Boston Consulting Group non serve se non ci sono dei flussi di dati attendibili, costanti e coerenti. Come non serve Deloitte. Serve qualcuno che conosca realmente ciò che si va a misurare, e che permetta di creare dei processi di innovazione.
Se mettiamo su una Panda uno stemma della Ferrari, non abbiamo una macchina in grado di andare a 300 all’ora.