04 dicembre 2020

Per gli esperti e per gli amanti. I destinatari del “Museo che non c’è”

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Esposti per la prima volta insieme, 70 capolavori della collezione De Fornaris inaugurano il nuovo Museo Virtuale della Fondazione

Il Museo che non c'è, 2020, courtesy Il Museo che non c'è

«Ha una vocazione paradossale, oltre che di grande efficacia».
Con queste parole Riccardo Passoni, direttore della GAM e Presidente della Commissione Artistica della Fondazione De Fornaris, ha introdotto Il Museo che non c’è, il progetto virtuale dell’omonima Fondazione. 

Per definizione il museo è una raccolta di opere d’arte ma anche l’edificio destinato a ospitarle. Nel caso specifico della Fondazione De Fornaris, c’è la collezione ma non c’è l’architettura, la struttura fisica. O, più precisamente, non c’era: oggi c’è ed è virtuale. Il progetto, realizzato da Infinity Reply, società del Gruppo Reply specializzata nella progettazione e sviluppo di contenuti e applicazioni 3D interattive, con l’utilizzo di tecnologie 3D di ultima generazione, ha subito un’accelerazione e acquisito un’indubbia e maggiore rilevanza durante il periodo di lockdown, ma nasce nel 2017 dal confronto di più punti di vista, tra cui quelli di Piergiorgio Re, Presidente della Fondazione De Fornaris e Carolyn Christov-Bakargiev, allora Direttrice della GAM, che è sede destinataria della conservazione e dell’esposizione delle opere della Fondazione che per statuto  le sono concesse in comodato gratuito.

Il Museo che non c’è, 2020, courtesy Il Museo che non c’è

Attraverso il sito della Fondazione De Fornaris, oppure con l’App “Museo Virtuale De Fornaris” (potete scaricarla qui) o l’applicazione di Oculus per un’esperienza immersiva in 3D, accediamo al museo che richiama l’architettura della GAM. Dall’atrio, con l’imponente e leggera Modulazione Ascendente di Fausto Melotti, Punti di Vista di Tony Cragg (realizzata nel 2006 in occasione delle Olimpiadi), Disarticolare un cerchio di Riccardo Cordero e In limine di Giuseppe Penone, del 2011 per celebrare i 150 anni dell’Unità d’Italia, ci muoviamo verso la prima sala, intitolata a Ettore De Fornaris, fedele all’arte come «ideale della vita perseguito con il massimo fervore dell’animo». Amante della pittura, il mecenate ha raccolto capolavori che, nel 1978, sono passati per legato alla città di Torino e confluiti nelle raccolte civiche. Ammiriamo, per esempio, un luminoso paesaggio della campagna francese, al centro del quale si impone dolcemente una figura femminile mentre sullo sfondo le nubi sono spinte dal vento (Novembre, Antonio Fontanesi, 1882), prima di approdare nella seconda sala che raccoglie grandi opere dell’Ottocento di Angelo Morbelli, Francesco Hayez, Pellizza da Volpedo. Proseguiamo nella terza sala, con il primo Novecento di Arturo Martini, Filippo De Pisis e l’ultimo momento metafisico di Giorgio De Chirico per poi scoprire nella quarta sala la straordinaria vitalità e il fermento che hanno caratterizzato la scena artistica torinese nel periodo tra le due Guerre con opere di Felice Casorati, Carlo Levi e Francesco Menzio. Poi Giorgio Morandi, nella quinta sala, insieme ad Alberto Burri e il suo grande Bianco del 1953: il colore è una pasta spessa e densa, sovrapposta in più strati che, variando, fanno emergere tracce di spartizioni compositore e forme simili a crateri. E infine il contemporaneo nella sesta sala, con Giulio Paolini, Aldo Mondino, Vettor Pisani e Giorgio Griffa, per ricostruire un contesto non più solo locale bensì internazionale. La cura del percorso, firmata Riccardo Passoni, restituisce l’idea di uno sviluppo e un’articolazione che abbracciano oltre due secoli di storia dell’arte. La crescita storico-artistica che precede il divenire del progetto si muove tra collegamenti e declinazioni, con accostamenti non scontati, che rinforzano l’identità della Fondazione. 

Il Museo che non c’è, 2020, courtesy Il Museo che non c’è

Il Museo che non c’è non è statico: come ha spiegato l’Ingegnere Paolo Sangalli, si può scalare all’infinito. È stato immaginato e realizzato per viaggiare nello spazio e nel tempo. Oggi che tutti disponiamo di smartphone, tablet, pc e, qualcuno, anche di visori VR, usando al meglio tecnologie come la fotografia a 360 gradi, la fotogrammetria e la produzione grafica computerizzata, la Fondazione De Fornaris, per la prima volta in Italia, ha rifiutato una semplice sequenza di immagini per offrire un approccio fisico, un vero e proprio percorso fisico e virtuale. In cambio ci chiede solo di affidarci, per vivere un’esperienza che è il più possibile simile a quella che si può vivere nel museo reale, riconoscendo quale grande contributo alla diffusione della cultura risieda nel cuore di questo progetto.

Il Museo che non c’è, 2020, courtesy Il Museo che non c’è

Esperti e amanti possono godere di elevati livelli di fotorealismo, ovvero di un’altissima risoluzione che permette la possibilità di zoom ampissimi per apprezzare la tecnica dell’artista, disponendo anche di punti di attenzione digitali creati ad hoc per alcuni particolari, dalla firma ai dettagli più tecnici, e con l’occasione di un’immersività ai massimi livelli che, con l’esperienza in realtà aumentata in scala 1:1, è disponibile multiutente. 

Piergiorgio Re, presentando Il Museo che non c’è, ha dichiarato che oggi le nuove tecnologie sono sempre più al servizio dell’arte. Carolyn Christov-Bakargiev gli ha fatto eco, inquadrando storicamente ciò che stiamo esperendo: l’esperienza 3D sta al XXI secolo come la prospettiva rinascimentale stava al XV secolo. È senza dubbio una rivoluzione tecnologica e, come tale ha dei pro e dei contro. È un beneficio indiscusso per la divulgazione del sapere, non lo è forse nei termini dell’addestramento alla percezione del mondo materiale. Ma siamo agli esordi, ovvero dove e quando si possono e si devono correggere le criticità a nostro beneficio, spingendo verso un uso sempre più finalizzato all’educazione civica, per sviluppare pensiero critico e conoscenza. 

Il Museo che non c’è, 2020, courtesy Il Museo che non c’è

Ecco, oggi non importa se, per quarant’anni, non ha potuto disporre di un museo fisico: la Fondazione De Fornaris, nata a Torino nel 1982 per volere testamentario del mecenate e collezionista Ettore De Fornaris e da sempre operante nel campo dell’arte, è riuscita a incarnare più che mai la volontà del suo fondatore di tendere attraverso l’amore e lo studio dell’arte «all’educazione artistica della collettività».

Il Museo che non c’è è il passo oltre il punto di non ritorno: agli esperti e agli amanti, i destinatari,  la scelta di fermarsi immediatamente prima o, affidandosi, prendere esempio, nel rispetto dei criteri di «nobiltà e reale pregio (pittorico)». 

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