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Art Project Maistra 21 partecipa all’Art Weekend in Engadina
Opening
Progetto creativo e in continua evoluzione, Art Project Maistra 21 promuove l’arte contemporanea e il suo dialogo con l’artigianato. Arricchendo e valorizzando la mostra inaugurata a febbraio negli spazi della Gallaria Sonne (ne avevamo parlato qui), con l’occasione dell’Art Weekend in Engadina la collaborazione tra Nicoletta Rusconi e Gallaria Sonne assume la forma di un nuovo, ricco e sensazionale percorso espositivo.
Insieme alla mostra fotografica che accoglie – con un focus sulla rappresentazione della fotografia in quanto linguaggio dell’arte contemporanea – le opere di Gianluigi Colin, Mario Cresci, Patrizia Della Porta, Francesco Pignatelli, Alessandra Spranzi, Pio Tarantini, Davide Tranchina e Silvio Wolf, la proposta espositiva che inaugura oggi si accompagna a Bite&Go, progetto nato nel 2021 con il fine di promuovere opere di artisti emergenti, mid-career ed established, uniche, inedite, di piccolo e medio formato e a prezzi accessibili.
Per completare il percorso Alissa Marchenko, che sospende nello spazio le opere della serie Memory Cocoons, Jaime Poblete, che presenta una selezione di tessuti pittorici, e Arjan Shehaj, che trasforma lo spazio in un ambiente immersivo, ci hanno raccontato in prima persona i loro progetti.
Cosa resta della tua esperienza a Silvaplana, che significato assume nel viaggio artistico e personale che Memory Coons rappresenta?
Alissa Marchenko: «Ogni luogo è inevitabilmente intrecciato all’esperienza che abbiamo vissuto. L’esperienza, a sua volta, si manifesta attraverso le emozioni che ci colmano in quel momento. Tutti questi elementi si accumulano nella nostra memoria, modellando la nostra psiche. Sembrerebbe che da ogni luogo in cui la vita ci conduce, raccogliamo un frammento di realtà per custodirlo dentro di noi. Per dar corpo a questo fenomeno, seleziono un po’ di materia fisica appartenente al luogo stesso: erba e fiori. Li raccolgo quotidianamente per documentare l’esperienza, per materializzare un processo naturale che avviene psicologicamente in ognuno di noi. Così è stato anche a Silvaplana. Questo luogo è di grande significato per me; l’intera esperienza preziosa legata alla preparazione della mostra è stata naturalmente accompagnata dalla raccolta dell’erba, una pratica che porto avanti costantemente da tre anni. Tutti questi ricordi particolari verranno intrecciati nel prossimo, terzo bozzolo».
La mostra è l’occasione del primo incontro tra due bozzoli. Come hai costruito il loro dialogo e la relazione con le altre opere esposte?
AM «Un dialogo tra loro emerge naturalmente poiché sono presentati insieme; il significato di questo incontro è intrinseco nella natura delle sculture stesse, o meglio, nella ricerca che le permea. Ogni bozzolo rappresenta un anno della mia vita e racchiude materia prelevata dai luoghi in cui ho vissuto esperienze, fungendo da punti di riferimento dei ricordi. Trovo profondamente emozionante e significativo poter collocare due sculture nello stesso spazio, un intervento che abbiamo pensato insieme a Nicoletta con grande attenzione. Questo è l’incontro di due anni diversi, ciascuno con esperienze profondamente diverse. Il primo incarna la serenità inconsapevole del 2021, rievocando la vita quotidiana tranquilla con la famiglia in Polonia. Il secondo, invece, racchiude tutta la confusione dei drastici cambiamenti del 2022: guerra, turbolenze nella vita privata e il trasferimento in Italia. Osservando due sculture insieme, silenziose e indifferenti, simili eppure distinte, riesco a creare una distanza emotiva che mi permette di contemplare la mia vita come una serie di cesti colmi di esperienze. Ogni cerchio si intreccia con gli altri in una sorta di destino ineluttabile, e collettivamente danno forma a ciò che sono. Questo pensiero mi dona serenità e fiducia nell’idea che ogni cosa avvenga per un motivo, e che il mio cammino mi conduca nella direzione giusta».
In mostra presenti una selezione di tessuti pittorici: quando sono nati, come li hai sviluppati e in che direzione vanno?
Jaime Poblete: «I lavori in mostra sono stati realizzati tra il 2021 e il presente anno. Pur essendo nati in date diverse, formano parte dello stesso tessuto simbolico che definisce il mio lavoro degli ultimi cinque anni, cioè la ricerca di una dimensione fisica della pittura, attraverso la quale si possa stabilire un parallelo con la pelle, per cui con il corpo. Direi che questo è il mio filo rosso. È interessante anche la definizione formulata in questa domanda: tessuti pittorici, perché pur essendo vicini nella loro formalità alla dimensione di oggetti, i miei lavori sono essenzialmente dipinti, cioè, manipolazione cromatica sulla superficie in cui il supporto, il tessuto, ha un ruolo da protagonista, esso è allo stesso tempo forma, struttura e veicolo del colore. In questo senso è evidente il mio debito con l’espressionismo astratto e soprattutto con il minimalismo, ma anche con un gesto pittorico precedente, più antico, penso alla natura morta, in particolare i drappeggi disposti come supporto alla composizione, uno spazio di astrazione pieno di connotazioni, in cui le pieghe si abbandonano al gioco di geometrie imperfette; penso alla tenda, la cortina, disposta dietro al soggetto di un ritratto, di una scena; una struttura morbida che definisce lo spazio e allo stesso tempo occulta o cela un significato profondo. Tornando ai pezzi in mostra, ogni serie si nutre di riferimenti diversi, ad esempio negli ultimi lavori hanno particolare rilevanza il laccio e il nodo, per me un collegamento stretto con l’eredità precolombiana, con il quipu, questa sorta di scrittura matematica o magica, riferimento presente anche nel lavoro di artisti come Cecilia Vicuna o Jorge Eielson».
Hai un dichiarato interesse per l’involucro, il contenitore e usi la piega come unità di linguaggio per andare nella direzione della fisicità. Movimento, tempo, spazio, ma anche corpo, pelle, scrittura: come si costruisce il tuo gesto rispetto a tutti questi fattori?
JP: «La piega per me è stata una grande scoperta, una possibilità con cui trasformare quello che in un momento è stato il mio gesto pittorico in un atto, seppur meccanico, quotidiano, ma pieno di connotazioni; un’azione attraverso la quale veicolare l’intuizione aptica, questa conoscenza tattile, arcaica, insieme alle possibilità del supporto e dell’informazione cromatica. L’atto di piegare permette di concentrare una nozione di tempo (quello dell’esecuzione e la narrazione), e la possibilità di creare un piccolo spazio nascosto, velato, quasi come una velatura pittorica, costruendo invece di un volume-artificio-pittorico, un vero spazio interiore, una tasca. A questo punto, il linguaggio si sviluppa attraverso il dialogo tra interno ed esterno, e qui mi collego fra altri, alla ricerca del psicoanalista francese Didier Anzieu (L’io- pelle/ L’epidermide nomade e la pelle psichica, Raffaello Cortina editore), in cui gli orifizi e le tasche costituiscono rispettivamente i punti di passaggio e accumulo-protezione di informazioni e organi molli-emozioni. Seguendo questo pensiero, il tessuto è stato per me una risposta espressiva con cui avvicinarmi alla pelle, il vero punto di confine fra corpo e realtà. Una metafora con cui poter riflettere riguardo l’essere ed il suo doppio».
Le tre grandi tele in mostra si espandono e si integrano contribuendo a evocare una forma che vive tra la dimensione irreale della superficie e l’estensione della vita reale. Come è nato questo progetto, come l’hai maturato e in che modo ti sei relazionato allo spazio?
Arjan Shehaj: «Tantissime cose reali e irreali del quotidiano ci influenzano, reali per quanto tangibili e irreali per quanto immaginarie: dobbiamo essere in grado di capirle catturarle, di ispirarci al reale per creare qualcosa che sembri irreale ma in realtà fa parte tutto della realtà giornaliera. Si tratta soltanto di guardare le cose da angolazioni differenti, con la capacità di vedere un po più in là della superficie. É l’atto, ovvero l’arte, di trasformare il concreto in astratto e viceversa, come dire una sorta di alchimia artistica, essendo in grado di cogliere sfumature che altrimenti sfuggirebbero. Il progetto è nato dopo aver visto lo spazio, grazie a una serie di scambi di idee e parole con Nicoletta Rusconi, a proposito di come e cosa presentare. Avevo già realizzato una delle tre opere, le altre due create per la mostra ricercando un equilibrio. Dal processo di allestimento delle due opere di 200×200 cm, è nata l’idea di una terza centrale che andava così a creare, all’improvviso, un triangolo».
La tua ricerca artistica è strettamente legata alla realtà quotidiana che rappresenti in modo così essenziale da sfiorare l’astrazione. Che valore hanno lo spazio e il tempo e in che modo e con che ruolo interviene l’immaginazione nel processo creativo?
AS: «Credo che tutto abbia una forma, anche l’astratto: una figura astratta é una forma. Spesso molte persone vedono forme nei miei dipinti, questo mi piace. Lasciare libera l’immaginazione di chi osserva diventa fonte d’ispirazione per me. Il tempo credo che non si misuri, il tempo per gli artisti non esiste, spesso si perde la cognizione con quest’ultimo. Invece lo spazio penso che sia decisivo e fondamentale, ci condiziona nella creatività e nella rappresentazione delle opere in un preciso luogo, condiziona le opere lasciandosi a sua volta condizionare. Addirittura lo spazio stesso può diventare opera d’arte».