08 febbraio 2021

Aurelio Amendola: 60 anni di fotografia in 200 scatti, alla Fondazione Pistoia Musei

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Alla Fondazione Pistoia Musei da oggi, 8 febbraio, la grande antologica che attraverso più di 200 scatti ripercorre i 60 anni di carriera di Aurelio Amendola. Ce ne parlano Paola Goretti e Marco Meneguzzo, curatori della mostra

Roy Lichtenstein, New York 1977 (part.) ©Aurelio Amendola

Con la grande mostra “Aurelio Amendola | Un’antologia. Michelangelo, Burri, Warhol e gli altri”, la Fondazione Pistoia Musei celebra i 60 anni di carriera di un fotografo che ha interpretato i capolavori della scultura del passato – da opere di Canova, Bernini, Jacopo della Quercia, Donatello a lavori di Giovanni Pisano -, e, parallelamente, ha ritratto i grandi artisti a lui contemporanei, come Alberto Burri, Giorgio de Chirico, Andy Warhol, Giacomo Manzù, Emilio Vedova, Lucio Fontana, Mario Ceroli, Roy Lichtenstein, Jannis Kounellis e molti altri.

Nato a Pistoia nel 1938, Aurelio Amendola è stato «fotografo dell’Ermitage di San Pietroburgo, degli Uffizi, dei Musei Vaticani, della rivista FMR, del Vittoriale degli Italiani, e di numerose altre istituzioni museali nazionali e internazionali. Legato a molti artisti del Novecento è un autore di fama mondiale, la cui fotografia non si riduce a semplice riproduzione, ma è simile alla pratica scultorea, alla sua armonia plastica, volume e sensualità», ha ricordato Fondazione Pistoia Musei.

Quella che inaugura oggi è «la prima esposizione che raccoglie la quasi totalità della produzione di Amendola, – ha proseguito l’istituzione – offrendo al pubblico l’opportunità di ammirarne la coerenza figurativa, il legame con la tradizione classica, con la storia dell’Arte e della Fotografia, con i grandi maestri contemporanei. Lontano dal modello documentaristico, con la grazia speciale della qualità atmosferica e sensoriale dei suoi scatti, la fotografia di Aurelio Amendola non è mai oggetto estetico ma un atto poetico e delicato, nello stesso tempo carnale e spirituale, meditativo e seduttivo.». 

Il percorso espositivo si muove tra le due sedi della Fondazione Pistoia Musei: Palazzo Buontalenti e l’Antico Palazzo dei Vescovi, dove rimarrà allestito fino al 25 luglio, mentre a Palazzo de’ Rossi, è in corso la mostraPistoia Novecento. Sguardi sull’arte dal secondo dopoguerra”, fino al 22 agosto.

Ricordiamo che l’ingresso alle mostre potrà avvenire esclusivamente previa prenotazione sul sito della Fondazione.

Aurelio Amendola (©)

La mostra e il fotografo raccontati da Paola Goretti e Marco Meneguzzo, curatori della mostra

Come è nata l’idea di questa mostra? Come si colloca nella programmazione della Fondazione Pistoria Musei?

Paola Goretti: «”I grandi pensieri vengono dal cuore”, risponderebbe Eugenio Borgna, emerito psichiatra (questo il titolo del suo ultimo libro). Le grandi intuizioni, pure. Dal sentimento, dalla tempesta del destino, dal cortocircuito vorticante di mille elementi che si intrecciano, come per incanto. Frequento Aurelio Amendola da un decennio, per amicizia e lavori editoriali pregressi. Da anni parlavo di lui con l’amico Cesare Mari, architetto (ideatore del magnifico allestimento, realizzato con Carlotta Mari), nel desiderio profondo di farglielo conoscere. Sapevo si sarebbero piaciuti, ho seguito l’istinto. La cosa accadde spontaneamente, durante una serata di gala di due anni fa. Un selfie che mi inviarono fu la prova del mio desiderio materializzato. L’indomani telefonai a tutti a due, giubilante dell’avvenuto contatto. “E allora facciamo una mostra!” esclamai…felicissima. Detto, fatto. Scrissi il progetto in un battibaleno che, grazie a Cesare, fu immediatamente inoltrato alla Fondazione Pistoia Musei. La Fondazione, generosamente, accolse la proposta in modo entusiastico, perché in linea con la programmazione culturale e gli obiettivi della dirigenza. Aurelio, cittadino del mondo e pistoiese di nascita, era un artista perfetto per un’antologica celebrativa della sua eccezionale carriera. A quel punto, decidemmo di coinvolgere anche Marco Meneguzzo, illustre contemporaneista, per dividerci i compiti. A me l’antico, a Marco il contemporaneo. E così fu…».

Giuliano De Medici, Michelangelo – Cappelle Medicee 1992 ©Aurelio Amendola
Come descrivereste il rapporto stabilito da Aurelio Amendola, attraverso la fotografia, con le opere d’arte?

Paola Goretti: «Questo è il cuore della questione. Aurelio è un fotografo-mago (lo dice anche Tomaso Montanari) diverso da tutti. Lui non illustra, non descrive, non interpreta. Lui SENTE. Che si tratti di una scultura antica o di un ritratto contemporaneo, Aurelio “entra in contatto con”, lo restituisce per via empatica senza aggiungere niente. La sua è una fotografia relazionale che discende dai grandi insegnamenti dell’umanesimo universale. Il marcatore temporale di ogni suo gesto fotografico è l’ascolto, l’incontro: senza dualismi. E poi, è una fotografia tattile, celebrante l’ordine dei sensi. Non rimanda all’assenza (ossia, all’originale assente) ma è mistero e rivelazione della Presenza. Che si rinnova ogni volta. L’altro è lì, è sempre lì. Come lì è la Pietà Vaticana. Non una rappresentazione, ma un’essenza.
In lui, il corpo È lo spirito. Anche le pagine più alte della letteratura critica ad Amendola dedicata (che abbiamo voluto inserire nel poderoso catalogo Treccani), hanno tutte celebrato questo aspetto. Sublime arte, sublime poesia». 

La Pietà, Michelangelo, Basilica di San Pietro – Roma 1998 ©Aurelio Amendola
Oltre a questo, quali altri spetti della ricerca di Aurelio Amendola che emergono, in particolare, dal percorso espositivo? 

Paola Goretti: «Volevamo inserire tutti i generi: la ritrattistica internazionale, gli happening, le azioni plastiche e spaziali, le turbolenze della contemporaneità, gli omaggi alla più austera tradizione classica, il tributo a Michelangelo, ovviamente (visto che Aurelio è la voce fotografica della sua scultura), ma in soluzioni d’insieme capaci di integrare le parti: tra accostamenti inediti e spiazzamenti percettivi.
Insieme all’architetto abbiamo studiato un distributivo che fosse una partitura musicale mossa e variata, senza un ordine cronologico o un andamento lineare. Entri con Kounellis e vai da Michelangelo, esci da Michelangelo e vai da Marino Marini, esci e vai da Canova, esci e vai da Burri, esci e vai da Bernini, esci e vai da Warhol, esci e vai in san Pietro, esci e vai a Matera, esci e vai a Gibellina, etc etc. E poi vai da Gli Assoluti: geniali sperimentazioni del Maestro, frammenti irriconoscibili di antiquaria. E poi cambi Palazzo, e ti godi la gloria di Pistoia e dei sui Uomini Illustri…».

Antonio Canova, Le tre grazie – 2008 ©Aurelio Amendola
Da dove provengono i materiali esposti e che approccio avete adottato per la loro selezione?

Paola Goretti: «Tutti dallo sterminato Archivio Fotografico di Aurelio, gestito da Francesca e Rebecca Amendola: rispettivamente, figlia e nipote del Maestro. La provenienza unitaria ha agevolato il reperimento della documentazione, evitando dissipazioni e frazionamenti; ma quello che abbiamo guadagnato in logistica l’abbiamo pagato nella ruminazione di ogni scelta. Dallo smisurato soggettario occorreva scegliere le immagini campione –architravi, capofila, matrioske; gli archetipi figurativi essenziali e indiscutibili- da cui far partire il mosaico delle connessioni. E lì, è stata un’impresa. Aurelio è titanico; bisognava procurarsi un retino da farfalle –facile, dolce, snello- per pescare le immagini parlanti. Ogni ora, cambiavamo i soggetti: pentimenti, ripensamenti, revisioni. Un magnifico incubo, che ci ha inchiodati reciprocamente per un anno intero …quello della pandemia…Siamo tutti molto grati a questa impresa. Ci ha permesso di restare uniti anche in condizioni estreme, mettendoci al riparo da derive psichiche e abbattimenti depressivi. Tessendo e filando le radici della vita e della grande bellezza».

Basilica San Pietro, Roma 1998 ©Aurelio Amendola
Potete indicarci un paio di lavori su cui soffermarci in modo particolare durante la visita alla mostra?

Marco Meneguzzo: «C’è una foto che apre la mostra, quasi fosse un prologo, la cui narrazione è la chiave con cui leggere il lavoro di Aurelio, e forse anche quello dei grandi fotografi che diventano artisti che usano la fotografia.

Aurelio Amendola fotografa un’opera di Jannis Kounellis, Kounellis vede la foto e decide di firmarla accanto alla firma di Amendola. Di per sé potrebbe semplicemente essere un gesto di cortesia e di apprezzamento – “mi piace a tal punto che vi lascio il mio autografo d’artista…” -, ma Kounellis non è tipo da autografi: se firma qualcosa significa che la considera un’opera compiuta. Ed è questo il significato su cui riflettere: che cosa è diventata questa fotografia? Un’opera di Kounellis? Un lavoro fotografico di Amendola? Un’opera collettiva?

La risposta coinvolge il senso ultimo dell’essere fotografo. In fondo la tradizione vuole che la fotografia sia il documento di qualcosa, più o meno riuscito, a seconda dell’abilità del fotografo. Ora, è vero che fotografando l’opera di Kounellis, Amendola ne testimonia l’esistenza, ma la sua capacità di interpretazione dell’opera è tale che “aggiunge” qualcosa all’opera, perché la fa vedere da un punto di vista tanto poetico e personale che neppure l’artista aveva probabilmente colto, a tal punto che si sente in obbligo di “riconoscere” sotto altre sembianze una propria opera, apponendovi la firma, e allo stesso tempo riconoscendone l’autorialità anche ad Amendola, al fotografo. Ecco allora che la fotografia da documento assurge ad opera, grazie all’intensità dello sguardo e dello scatto, che ne fanno qualcosa di diverso da prima. Dal momento che qualcuno vedrà questa foto di Amendola, non potrà più guardare l’opera di Kounellis senza tenerne conto. E così per ogni fotografia che riesce a diventare opera, di qualunque soggetto si tratti: una volta viste le foto di Michelangelo scattate da Amendola, non potremo più guardare le sue sculture senza tenere conto del “taglio” luministico che il fotografo ne ha dato…».

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