11 marzo 2020

Al via la 22ma Biennale di Sydney

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Dal 14 marzo sarà aperta l'edizione 2020 della Biennale di Sidney, diretta da Brook Andrew e intitolata "Nirin", con 94 tra artisti, creativi e collettivi distribuiti in sei venues. Fino all'8 giugno

idney Ghetto Haiti biennale
22ma Biennale di Sidney, courtesy Biennale of Sidney

Due biennali in continenti diversi: la 22ma Biennale di Sidney, che aprirà dal 14 marzo all’8 giugno 2020, e la sesta Ghetto Biennale, a Port-au-Prince, Haiti, che si è svolta dal 29 novembre al 20 dicembre 2019, il cui sito è stato distrutto da un incendio lo scorso primo marzo, causando gravissimi danni per la popolazione e la perdita di numerose opere d’arte.

22ma Biennale di Sidney, courtesy Biennale of Sidney

L’auspicata guarigione, la 22ma Biennale di Sydney

In Australia, dal 14 marzo all’8 giugno 2020, la Biennale di Sydney presenterà opere di oltre cento artisti internazionali in sei siti di Sydney.
La mostra guidata dall’artista visivo Brook Andrew, intitolata “Nirin”, affronterà i temi relativi alla sovranità, alla guarigione e alla trasformazione. La 22ma edizione presenterà una vasta gamma di opere d’arte contemporanea che spaziano dal video alla fotografia, alle installazioni e alle esibizioni, in sei diversi luoghi di Sydney: la Galleria d’arte del Nuovo Galles del Sud, Artspace, Campbelltown Arts Centre, il Cockatoo Island, Museum of Contemporary Art Australia e la National Art School.

Come in una fase meditativa nella quale si attua il distacco dalla realtà, “Nirin” vuole portare ad abbracciare il proprio stato inconscio in un’altra dimensione nella quale guarire, risolvere le ansie, e arrivare a immaginare un futuro possibile nel quale attuare la necessaria trasformazione per impostare un mondo diverso e una società più egualitaria.

Uno stato di ottimismo vuole stravolgere dal caos le abitudini ormai deteriorate di una società al collasso. Il messaggio invita ognuno a spostare il proprio asse per concedersi, ed estendere una nuova possibilità al mondo. Una rivoluzione ottimista nella quale faranno da padroni coloro che vengono reputati fuori dal coro, attraverso un programma corale composto da performance, parole e collaborazione diffusa.

Un programma intenso nel quale sono imperdibili lo spazio dell’artista australiano Tony Albert per la raccolta, la condivisione e la guarigione sotto forma di una serra in cui i visitatori e le famiglie saranno invitati a scrivere ricordi e messaggi su carta imbevuti di semi di piante autoctone; l’intervento dell’enfant prodige afro-americano Arthur Jafa, l’artista interdisciplinare e attivista Tania Bruguera, i lavori di Laure Prouvost, dell’artista di origine ghanese Ibrahim Mahama con A Grain of Wheat, un’installazione su larga scala di sacchi di carbone cuciti, che parlano delle condizioni di domanda e offerta nei mercati africani; le improvvisazioni performative di Brian Fuata che pendono tra la verità e l’azione; i momenti nei quali conoscere gli artisti e ascoltare i discorsi sulla loro ricerca nei quali sarà possibile incontrare Karla Dickens, il collettivo The Mulka Project, la cui missione è di sostenere e proteggere la conoscenza culturale ed ambientale del sito di Northeast Arnhem Land.

Ai margini, la sesta Ghetto Biennale

La rivoluzione haitiana, forse una delle rivoluzioni più importanti e trascurate, sembra essere stata scritta dalla storia occidentale raccogliendone le grandi derive e le fragilità. Per molti è sempre stata una risorsa storica che ha dimostrato come sia possibile attuare il cambiamento dal basso.

Indubbio sia avvolta da un alone magico e da una epifanica seduzione, nella quale ancora oggi dimostri come il possibile sia seguito dall’impossibile, la vittoria dalla sconfitta, il bene segua il male e viceversa in un turbine infinito. Haiti è quel nervo scoperto e la sconfitta per un occidente troppo preso dal disinteresse nei confronti dei deboli.

Immergendosi in un passato glorioso, e respirandone le “articolazioni” di una rivoluzione in atto la 6a Ghetto Biennale, si è svolta a dicembre, mostrando tra tante incertezze come fosse possibile curare una biennale, e un programma pubblico, nella reale emergenza e durante un collasso di una nazione.

Un corposo programma di performance, workshop e proiezioni ha affiancato le tante installazioni site specific realizzate da artisti di Haiti di cui segnalo Jerry Reginald Chery aka Twoket, Wesner Bazile, Aurelien Moliere, Steevens Simeon, e internazionali; come Tom Bogaert, Louis Henderson, Laura Heyman, Alia Farid, JeanLouis Huhta, Fabien Clerc; i lavori realizzati a distanza dall’artista californiano Ismael De Anda, in collaborazione con Gina Cunningham e Jim Ricks, che rielaborato i loro lavori fotografici realizzando un quartetto di collage digitali dal titolo, Trance Portal Fierce Love Quartet, che ritrae una sorta di portale concettuale per trascendere le distanze tra le culture ibride che si alimentano tra Haiti, Los Angeles, El Paso, il Texas e Ciudad Juárez e il Messico.

L’incendio nel quartiere della Grand Rue

Se poteva essere una vittoria avere realizzato questa edizione intitolata “The Haitian Revolution & Beyond” gli ultimi giorni hanno decretato lo sconforto per la comunità nativa di Haiti legata alla Biennale; la sera di domenica primo marzo un terribile incendio ha devastato il quartiere della Grand Rue di Port-au-Prince, dove si tiene la Ghetto Biennale e ha sede lo studio dell’artista haitano Guyodo.
Sono state distrutte, o perse, un’enorme quantità di opere d’arte, alle quali si aggiungono la distruzione dei piccoli laboratori di tornitura del legno nei quali spesso gli artisti realizzavano i lavori, oltre alla conflagrazione delle case di un intero quartiere. Gli abitanti hanno visto perdere ogni tipo di sostentamento. Una petizione organizzata dal gruppo di lavoro della Ghetto Biennale sta raccogliendo dei fondi per aiutare.
In un momento corale di sconquasso mi piace sperare che l’arte nuovamente dia avvio a una nuova rinascita.

 

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