10 settembre 2018

La solitudine del curatore

 
Si è conclusa ieri a Palermo, allo spazio KaOZ, la prima tappa de “La solitudine del curatore#1”, un progetto concepito come itinerante a cura di Katiuscia Pompili (in co-curatela con Dimora Oz e Sasvati Santamaria)

di

Se si dovesse scegliere un solo termine per descrivere il progetto La solitudine del curatore#1, a cura di Katiuscia Pompili, sarebbe ‘sconfinamento’, lo slittamento della pratica artistica in quella curatoriale, di quella espositiva in quella performativa, lo sconfinamento tra spazio espositivo e spazio abitativo, che ingloba l’ibrida identità di KAOZ, realtà attenta alle dinamiche relazionali e partecipative, scelto tra i progetti collaterali di Manifesta 12 e animato dal proposito di farsi promotore di mostre e iniziative votate all’aspetto relazionale, partecipato e inclusivo.
“La solitudine del curatore#1” (che muta il titolo da un capitolo del libro “Esposizioni: emergenze della critica d’arte contemporanea” di Stefania Zuliani), non è una solo una mostra, ma una ricerca che cerca di dar voce al tempo “rubato” della progettualità, del processo, dell’esperienza, della ricerca che anima, o che dovrebbe animare la relazione tra curatore e artista. Il progetto definisce così una nuova esperienza di tempo e una ridefinizione topologica dei ruoli, dei campi di azione e interazione della pratica artistica e curatoriale, lo slittamento dell’esperienza della stessa curatrice, siciliana, nel viaggio che ripercorre a ritroso il suo trasferimento nel nord Italia, riportando in Sicilia, entro il vano di una valigia, le opere di artisti conosciuti negli anni trascorsi tra Milano e Torino. Un baglio a mano diventa baule custode della dimensione artistica, di una ricerca identitaria ed esperienziale nuova legata all’arte, ai percorsi soggettivi e intersoggettivi che soggiacciono alla pratica artistica, ma anche alle dinamiche del sistema dell’arte contemporanea. Un tentativo di riarticolare le lacerazioni e le cesure che hanno portato l’arte ad essere spesso assimilata ad un evento, ad essere inglobata nella “debordiana” società dello spettacolo. Alla dimensione puntuale dell’evento espositivo la curatrice e Sasvati Santamaria contrappongono invece l’idea di un tragitto da compiere, che esige una dilatazione temporale e di relazione, un dialogo serrato tra soggettività che entrano in contatto; suggerisce la trasportabilità, il viaggio, una direzionalità impartita al tempo verso il duraturo. Questa traiettoria spaziale e temporale ricorda forse la necessità del curatore di calarsi nel lavoro dell’artista, nei suoi procedimenti, nella transitoria natura dell’autorialità, che può farsi co-autorialità, segna una parabola che sposta l’asse delle implicazioni per abbracciare il tentativo di riorientare lo sguardo sul sistema dell’arte, su un’esperienza che si costruisce nella relazione. Così Sasvati Santamaria costruisce fisicamente l’opera di Leonardo Remor Living Notes: a partire da istruzioni dell’artista, è la co-curatrice che completa e conferisce forma alle sculture di carta realizzate seguendo degli schemi modulari, inconsapevole fino all’ultimo del risultato finale. E dare forma può voler dire creare, mettersi a fianco dell’artista nel processo creativo, o ri-creativo, dell’opera. All’interno della valigia Carpisa blu arrivano nella project room anche i lavori di altri quattro artisti. Lia Cecchin sovverte le valenze della tecnica del Tie Dye, attraverso la quale negli anni Settanta, tra le comunità hippie, si usava sublimare a rango spirituale l’esperienza allucinogena legata all’uso di droghe. Gli esiti decorativi astratti ottenuti originariamente si legano qui ad una figuratività raggiunta per sottrazione di colore. Una maglietta azzurra è un cielo tridimensionale, sul quale si attiva un campo visivo di matrice retinica. Ancora, Davide Sgambaro instaura un dialogo intimo con il progetto, aprendo un piccolo scrigno di legno in cui abitano, sotto forma di preziosi oggetti, i simulacri della sua storia; amuleti capaci di decodificare una leggenda privata che rivive forse nel refolo del gesto interiore della rivelazione. Giuseppina Giordano affida alle parole l’indagine sul concetto di relazione: la poesia Amore a prima vista di Wislawa Szymborska, i cui versi sono tradotti in 104 lingue, campeggia su una delle pareti dello spazio. Lo stencil murale restituisce il tracciato frammentario della comprensione, della comprensibilità e incomunicabilità che si frappone, irriducibile, nella relazione tra individui. Questo scarto è proprio il luogo in cui si annida la percezione della solitudine, una stasi non per forza inerme. A suggerirlo è l’opera di Filippo Leonardi Colombaia “otium”: il posatoio su cui i volatili riposano all’interno delle colombaie, diventa una solitaria struttura che raccoglie sotto i due elementi a spiovente l’invisibile idea di un isolamento costruttivo, foriero dei retaggi dell’idea platonica di tempo, del concetto latino di ozio che ha inevitabilmente a che fare con la cura di sé, della propria saggezza, di riflesso con il rapporto con l’altro. Quest’opera marca ancora una volta l’anelito del progetto, volto forse alla possibilità di un riavvicinamento filologico alle valenze semantiche del termine curatore.
L’impalcatura della sintassi espositiva è sorretta da una profonda riflessione teorica (grazie anche ai contributi critici di V.Estremo e S.Taccone), che come un tarlo sviscera la condizione di solitudine creativa o ri-creativa dell’opera, di solitudine autoriale e intellettuale, aprendo a nuovi orizzonti epistemici e ad una possibile riappropriazione dei significati e delle implicazioni del ruolo del curatore. È g. olmo stuppia che, mettendolo in discussione, rimodula il rapporto tra questa contraddittoria figura e l’artista, includendo nella sua azione le istanze sottese all’intero progetto. Crea un prosieguo all’idea del cammino, della trasportabilità, dell’arte come percorso che deve attraversare se stessi, ma anche la dimensione con la quale si interagisce, lo spazio urbano e sociale. L’artista intraprende insieme alla valigia e alla curatrice l’itinerario spiritualmente identitario di Palermo, su verso il santuario di santa Rosalia sulla cima di Monte Pellegrino. Le bottiglie riempite di acqua sacra, seguendo la via di discesa dal monte, arrivano al mercato di Ballarò. La curatrice qui diventa parte dell’azione, investita dall’artista del ruolo di “abbagnatrice”, vende l’acqua al mercato, si fa portatrice del senso dell’opera, cantastorie del pellegrinaggio (durante l’inaugurazione), forzata ad entrare nell’ordinario urbano, rendendolo così straordinario.
L’esperienza intersoggettiva è il contraltare della chimera espositiva; il tempo delle relazioni non può essere reificato esclusivamente dalle opere nella project room, quanto piuttosto dalla percezione della loro narrazione. Così il processo sotteso all’esito della mostra placa il “rigoglio espositivo” a favore di un sovrappiù che esige di essere intercettato. (Giuseppina Vara)
In alto: La solitudine del curatore#1, vista della mostra. Foto di Michele Vaccaro
In homepage: Davide Sgambaro, Ask me, ask me, ask me, 2018, metallo placcato oro, oggetti recuperati. Foto di Michele Vaccaro
INFO
Dal 20 agosto al 9 settembre 2018
La solitudine del curatore#1
KAOZ
via Francesco Riso, 55 (P.zza Magione) Palermo
Orari: mostra visitabile su appuntamento
Info: tel. +39 3386301380, lasolitudinedelcuratore.press@gmail.com 

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui