12 marzo 2013

La classe operaia non va mai in paradiso

 
La classe operaia non va mai in paradiso

Sandro Mele ci racconta come ha realizzato il suo ultimo progetto, “The American Brothers”, focalizzato sugli operai Fiat e il modello Marchionne. Non per non dimenticare, ma per esserci

di

La mia ricerca inizia sempre dall’incontro fisico con i protagonisti della storia che voglio scrivere, senza rivolgermi allo strato di informazioni trasmesse, che so quanto possano ammorbidire o minimizzare i fatti.
Per il progetto “The American Brothers”, che ho realizzato presso la galleria Michela Rizzo di Venezia, ho sentito una grande spinta da LUCHA, il mio lavoro del 2006, che mi ha permesso di venire a contatto con la classe operaia della fabbrica Fasinpat ex Zanon di Nequen in Argentina (e dico classe nel senso di unitario, compatto, come condivisione). L’avevo vista pronta, forse anche perché allo strenuo delle forze, a lottare non solo per gli ideali, ma per riprendersi la fabbrica, che sentivano giustamente propria, come padri. 
Il senso di appartenenza che mostravano quegli operai argentini significava tante cose: dignità del proprio lavoro, senso di responsabilità, e necessità, sicuramente. Ma soprattutto, era chiara la certezza con cui lottavano, la sicurezza di avere imboccato la strada giusta per loro. Il coraggio di esporsi insieme per realizzare un desiderio, che è poi banalmente poter lavorare. La semplicità apparente di questo bisogno e la difficoltà insormontabile di placarlo, è il nodo della storia che voglio capire, e anche lo spirito con cui ho affrontato la ricerca. 
Con “The American Brothers” indago sugli aspetti meno chiari del modello  Marchionne, partendo dal racconti raccolti tra gli operai degli stabilimenti (Mirafiori, Pomigliano, Lecce) e durante le manifestazioni di piazza, per trovare opinioni personali sulla vicenda. Non credevo che sarei riuscito a farmi dire molto, temevo nella forza del ricatto, che in Italia è piuttosto prepotente. Ho invece parlato con persone di grande coraggio, perché hanno messo la faccia nel proprio racconto e definito alcuni punti oscuri della vicenda, che difficilmente sarei riuscito a scovare altrove.
I video che ho esposto li considero documenti, fonti che mi sembra giusto mostrare così, senza aggiungere altro, e che non posso non far diventare parte portante della mostra. Perché quello che io intendo facendo una mostra del genere è far conoscere un certo tipo di fatti, non fermandomi a quello che so fare io, ovvero opere, ma inglobando fatti e opinioni che aiutino a montare il racconto, ad aggiungere dettagli importanti. E pur sapendo che la mia posizione è chiara ed evidente, mi preme riuscire a individuare quei pezzi mancanti della vicenda che ci viene normalmente trasmessa.
Allora inserire le parole dei lavoratori, ma anche di personaggi diversi come Paolo Griseri e Giorgio Airaudo mi hanno aiutato a definire i termini del ragionamento, a dare uno sviluppo coerente a ciò che dico. Senza la volontà e la solidarietà di queste persone non sarei stato in grado di farlo.
E qui vedo un altro aspetto nodale del progetto: la volontà e anche il piacere di mettere a mia disposizione esperienze personali, e accettare che diventino parte di un analisi più ampia, anche estranea al proprio mondo come è per queste persone il mondo dell’arte, mi fa pensare che la condivisione incoraggi i gesti, le azioni che probabilmente da soli non ci immagineremmo. 
Un atteggiamento che avevo visto bene in Argentina, là gli operai si comportavano non solo come individui, ma come collettività, come unità compatta : l’”Organizzatevi perché avremo bisogno di tutta la vostra forza” di Antonio Gramsci.
E la cultura lavorativa italiana che è cresciuta anche con questi presupposti, sta rischiando invece di essere demolita proprio in questo. Facendo le interviste, ho capito dagli operai che esiste un atteggiamento ostile all’unione tra i lavoratori, che annulla l’idea di gruppo per indebolire la classe operaia. E là dove i sindacati non hanno presa sul territorio,come è al Sud, la difficoltà di opporsi esiste, perché l’operaio da solo perde forza e coraggio.
Nella costruzione della riflessione, non ho mai fatto a meno di invitare e coinvolgere  amici collaboratori che intervenissero con il loro mestiere (Roberto My per il montaggio video, Ennio Colaci per le musiche e Giovanni Rispoli per la consulenza) e ho ricevuto così un appoggio non solo tecnico, ma soprattutto etico al lavoro.
Ed è la stessa cosa che sento pensando a Michela Rizzo e a Raffaele Gavarro che come gallerista e curatore, sono stati capaci e coraggiosi a dare spazio a “The American Brothers” non tanto nel messaggio politico, che può essere inteso in modi diversi o persino non condiviso totalmente, ma nel senso della mostra, di accogliere il rischio di un diverso punto di vista su una questione emblematica della nostra società.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui