24 aprile 2006

10, 100, 1000 Freud

 
di marco enrico giacomelli

In occasione dei 150 anni dalla nascita di Sigmund Freud, in Italia prevale il disinteresse. Schiacciate dalle celebrazioni mozartiane, le istituzioni culturali latitano. Fa eccezione il Forum Austriaco di Cultura di Roma e il Museo a lui dedicato a Vienna, e ci mancherebbe. Rimozione freudiana?…

di

“Mentre il gusto può anche prestarsi all’analisi psicologica, l’arte, forse no, forse non vi si presta”
(Ernst H. Gombrich)

L’austria alla Presidenza UE per il canonico semestre e di Sigmund Freud (Freiberg 1856 – Londra 1939) non si parla. Almeno il 23 aprile 1956 il Time gli aveva dedicato la copertina. E dire che, se ne potrebbe discutere a lungo. Per esempio, di Freud e l’arte. Un binomio che prolifica già mentre viene pensato. Potremmo cominciare nella maniera più semplice, con una ricognizione di opere e artisti contemporanei che lo hanno chiamato esplicitamente in causa. Max Klinger, che lo studiava assiduamente, poi il Freud cioccolatoso di Vik Muniz e quello fluido di Francesco Cervelli. Il Freud inserito nel Sentiero della superbia di Jota Castro, ricordato attraverso la prole da Jaume Plensa in Freud’s children, citato librescamente da Andrés Serrano nella serie The interpretation of Dreams. E ancora, il pouf e il disegno Sigmund Freud Modern di Erwin Wurm e il Freud pescatore ritratto da Tullio Pericoli. Per non dire del celeberrimo disegno col profilo del Nostro che si con-fonde cou un lascivo nudo femminile, peli pubici sovrapposti al sopracciglio e tutto il resto.
Tuttavia l’argomento freud-e-l’arte può essere sviluppato in vari altri modi. C’è un Freud che pubblica saggi che parlano d’arte; quello che scrive lettere private in cui si esprime sull’arte; il Freud collezionista di oggetti antichi, egizi e mediorientali; e naturalmente c’è l’eredità di Freud, quella teorica e terapeutica. Una molteplicità di Freud, che proprio questo ci ha insegnato: l’“Io non è padrone in casa propria”.
Il Freud eloquente della corrispondenza privata scrive alla fidanzata che “queste cose hanno un valore più storico che estetico”, riferendosi alla sezione greco-romana del Louvre. Quando si tratta di espressionisti è ancor più diretto; così nel 1920 al collega Oscar Pfister: “Nella vita privata non ho per nienSigmund Freud ritratto da Vik Muniz te pazienza con i matti. […] Questi individui non possono pretendere al titolo di artisti”. Dopo 18 anni, il giudizio è solo apparentemente più tenero. Con la mediazione di Stefan Zweig, incontra Salvador Dalí e poi scrive: “Fino a ora ero incline a considerare i surrealisti, che sembra mi abbiano prescelto come loro santo patrone, dei puri folli […] Il giovane spagnolo […] mi ha suggerito una diversa valutazione. […] Eppure come critico uno potrebbe avere il diritto di dire che il concetto di arte resiste al fatto di essere esteso oltre il punto in cui il rapporto quantitativo tra il materiale inconscio e l’elaborazione preconscia non è mantenuto entro certi limiti”. Insomma, il processo primario va bene per il motto di spirito, l’arte invece è un’altra cosa. (Viene allora da chiedersi se certe boutade contemporanee verrebbero apprezzate da Freud proprio in quanto battute…)
Gombrich ritiene che l’interesse per l’“arte moderna” da parte di Freud sia esclusivamente psicologico. Probabilmente è una valutazione troppo drastica, ma almeno ha un pregio. Infatti molta critica d’arte si è adagiata sulla sequenza: pensiero inconscio che turba l’artista; es-pressione mediante l’arte; turbamento nel pubblico. Come scrisse lo stesso Freud in Personaggi psicopatici sulla scena (1915), in quest’ottica la forma è soltanto un “premio di seduzione”, un “piacere preliminare”. La prospettiva va ribaltata, poiché è la forma a determinare il contenuto. Che poi l’artista possa/riesca a intervenire sul codice, è una questione diversa.
Resta il fatto che Freud non fu tenero coi surrealisti, e nel 1932 rispose all’invito di Breton a partecipare a una antologia di sogni con le laconiche parole: “Non saprei immaginare che cosa potrebbe aver da dire per chicchessia”.
Jota Castro, Sentiero della superbia, 2004 Mixed Media Galleria Massimo Minini, Brescia
L’immagine di un Freud tradizionalista ormai non spaventa più del dovuto. Essendo un erede spirituale del romanticismo tedesco, se non gradiva un Kokoschka non si può fargliene una colpa. Pubblicò dunque lavori che guardavano prevalentemente al passato dell’arte e della letteratura. Prendendo anche cantonate memorabili, come quando incentrò il Ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci (1910) sulla figura dell’avvoltoio che aveva colpito Leonardo in tenera età. Peccato che si trattasse di un nibbio, trasfigurato dall’imperizia di una traduttrice. E nel Mosé di Michelangelo (1913) ribadì la propria posizione, cioè l’essere interessato più al “contenuto delle opere d’arte che dalle qualità formali e tecniche”. Assunto quantomeno curioso. Che ha condotto al privilegio quasi assoluto dell’elemento letterario nella psicoanalisi (dell’arte), tale per cui si prescinde dalle peculiarità visive dell’opera. Così la psicoanalisi, definita talking-cure dalla celebre paziente Anna O., si ritrova nel proprio elemento. E il sogno, eminentemente visivo, viene tradotto in racconto. Finché, con Lacan, il primato del linguaggio si “istituzionalizza”, col primato del significante e tutto ciò che ne discende.
Rimangono comunque alcuni concetti che oramai fanno parte del patrimonio della cultura occidentale: inconscio, sublimazione, rimozione, perturbante… E Freud compare nella galleria dei “maestri del sospetto” accanto a Nietzsche e Marx. Allora gli si perdona quasi tutto. Di aver formato “allievi” che liquidavano l’arte come “sublimazione della pulsione di guardare” (Otto Rank e Hanns Sachs), di avere capogiri edipici nel luogo simbolo della cultura greca (Un disturbo della memoriaSigmund Freud sull’Acropoli, 1936), di aver legato indissolubilmente la testa di Medusa alla castrazione, con buona pace di Jean Clair. Più difficile ripulirgli la coscienza per le derive psichiatriche e farmaceutiche di alcune sue teorizzazioni, visto che ci ha insegnato che talora le colpe dei padri ricadono sui figli. La situazione dell’Europa lo aveva portato a vedere le cose in modo sempre più fosco: nel Motto di spirito (1905) l’arte era “espressione” del principio di piacere, trasgressiva e liberatoria, mentre nel Disagio della civiltà (1929) diventa strumento consolatorio di fuga dal principio di realtà. “Accusati” della medesima evasione furono e sono migliaia di esseri umani. Aby Warburg, per esempio, che per tre anni fu rinchiuso a Kreuzlingen sotto le cure di Ludwig Binswanger; Antonin Artaud, visitato pure da Lacan quando era rinchiuso al Sainte-Anne di Parigi.
Quanto alla storia della ricezione italiana della psicoanalisi, meriterebbe una riflessione a parte. Molte sono state e tuttora sono le applicazioni, teoreticamente schematiche e strumentali, illeggibli nelle psicobiografie degli artisti, talora terapeutiche in arteterapia. Con esempi degni di un caso clinico, come quello di Cesare Brandi, che la psicoanalisi la cacciava sbraitando dalla porta per farla rientrare di soppiatto dalla finestra.
Infine, per consolarci, rammentiamo un altro Freud, quello della sua genìa: Lucien Freud e la nipote May Cornet. Buon sangue talora mente, penserebbe il vecchio Sigmund.

marco enrico giacomelli

bibliografia
Cesare Brandi, Segno e immagine, Il Saggiatore, Milano 1960
Jean Clair, Medusa. L’orrido e il sublime nell’arte, Leonardo, Milano 1992.
Michel David, La psicoanalisi nella cultura italiana, Boringhieri, Torino 1970
Stefano Ferrari, Materiali per una psicologia dell’arte, Clueb, Bologna 1997
Sigmund Freud, Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Bollati Boringhieri, Torino 1991 [i lavori citati non compresi in questa antologia si trovano nelle Opere e Lettere di Freud pubblicate dall’editore torinese]
Ernst H. Gombrich, Freud e la psicologia dell’arte, Einadi, Torino 1992
Otto Rank – Hanns Sachs, Psicoanalisi e sue applicazioni, SugarCo, Milano 1988

[exibart]

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