17 aprile 2008

68 MARRAMAO

 
I parrucconi all’indice, la rivoluzione sessuale all’ordine del giorno. Decisamente non è una data per vecchi. È un fatto generazionale e sovranazionale: barricate, lotte e botte da orbi. Dopo quarant’anni, del fenomeno “sessantotto” se ne riparla in tutta Europa, mentre al Parco della Musica di Roma c’è chi gli dedica un festival. Sono due filosofi sessantottardi. Irriducibili? Attenti a quei due. Exibart ne ha intercettato uno per chiedergli alcune cose...

di

Professor Giacomo Marramao, che età aveva nel ’68? Cosa faceva?
Nel ‘68 studiavo filosofia a Firenze e, quando in primavera iniziammo a occupare la facoltà, avevo compiuto da poco ventuno anni, essendo nato nell’ottobre del 1946. L’anno accademico del ‘68 è anche quello in cui mi sono laureato, però nella sessione d’esame di febbraio dell’anno successivo.

Quindi lei, oltre a essere l’ideatore del tema di questa terza edizione del Festival della Filosofia, è anche testimone diretto e, probabilmente, protagonista di un’epoca e di una rivolta giovanile e studentesca che si identifica in questa data. Siamo in presenza, per così dire, di un conflitto d’interessi?
Voglio subito precisare un dettaglio: protagonista sì, ma di questo non ne ho fatto una professione, come invece hanno fatto altri, ad esempio il mio vecchio amico Mario Capanna, che era il capo del movimento studentesco milanese. Il quale, tra l’altro, mi aiutò a fare la prima occupazione della facoltà. Per quanto mi riguarda, non mi è mai venuto in mente di scrivere libri sul ‘68, né intendo farlo ora. Per il resto sì, ero tra quelli che organizzavano e guidavano la contestazione nella mia facoltà. In ogni modo, il Festival della Filosofia, che ho organizzato insieme a Paolo Flores d’Arcais che con me ne detiene la direzione scientifica, cerca unicamente di restituire il ‘68 alle sue esatte dimensioni. Si è trattato sicuramente di un movimento importante, un momento di mutamento storico e culturale significativo, di estensione cosmopolita. Tanti ragazzi provenienti da esperienze molto differenti: insieme provavamo tutti le medesime insofferenze e, conoscendo poi giovani di altri Paesi, ci rendevamo ancora più conto che la nostra era una rivolta dalle dimensioni mondiali.
Giacomo Marramao - photo Riccardo Musacchio & Flavio Ianniello
Ma, mentre altrove di questo quarantennale si traggono conclusioni decisamente critiche anche da parte di molti attivisti di allora, lei gli dedica un festival. Perché questa celebrazione in grande stile?

Intenti celebrativi no! Con questo festival vogliamo evitare gli eccessi, siano essi apologetici o denigratori. Trovo poi incomprensibile e un tantino ipocrita anche l’atteggiamento di coloro che dicono “come erano belli gli anni ‘60 e come si sono sciupati nel ‘68”, perché il ‘68 non ha fatto che raccogliere sul piano politico e sociale l’esperienza maturata negli anni precedenti.

Quel senso di cosmopolitismo di cui parlava prima, come si esprimeva nella realtà?

Per esempio, gli indizi di un vasto movimento culturale giovanile dal carattere sovra-nazionale possono essere rintracciati in ciò che accadde con la grande alluvione di Firenze nel 1966. Da tutto il mondo giunsero spontaneamente migliaia di giovani per offrire il proprio contributo in termini di lavoro nel salvare la città. Fu una cosa sensazionale. Tra l’altro, in quell’occasione conobbi dei giovani che venivano da New York e da Berkeley e che poi tornarono a trovarci durante le occupazioni della facoltà. Erano ragazzi che solidarizzavano con le lotte del ‘68.

Questo quarantesimo anniversario è l’occasione di tanti dibattiti in tutta Europa; come lei dice, fu un movimento di ribellione internazionale che segnò e cambiò la storia. Ma chi o qual era il bersaglio? E cosa voleva quella generazione di giovani?
Parto dalla mia esperienza: quello che avvertivo allora era innanzitutto l’insoddisfazione per com’era organizzata l’università nella sua trasmissione del sapere; ma avvertivo anche l’insofferenza verso tutte le vecchie istituzioni della società civile. Tutti sentivamo un gap, una divaricazione molto marcata tra le nostre istanze e l’assoluta inadeguatezza delle risposte che ci venivano date. Guardi, posso affermare che, sia per me che per i miei colleghi del movimento, quegli anni non hanno mai significato un tentativo di deresponsabilizzazione rispetto alla cultura e allo studio. Noi durante le occupazioni studiavamo di più, studiavamo cose diverse da quelle che ci facevano studiare, ma si leggevano più cose, anzi era una gara nel dimostrare rigore. Lo spessore culturale era, in generale, notevolissimo.
Un manifesto del Maggio francese
Cosa significava il fatto che quella rivolta generazionale nascesse negli ambienti studenteschi piuttosto che nella classe dei lavoratori? Quegli studenti non rappresentavano certo la classe più sofferente della società…

Questo sì. Ma bisogna dire che la nostra era una generazione studentesca, forse la prima della storia italiana, che proveniva anche da ceti sociali molto modesti. Però nel ’69 c’è stato anche il legame con la classe operaia, fu quello che è passato alla storia come “l’autunno caldo”. A Parigi questo legame ha luogo già nel ’68, quando ci furono i grandi scioperi del cosiddetto “maggio francese”: studenti e operai insieme.

L’incipit della rivolta fu istintivo o ebbe l’influenza di ideologie politiche, utopie o altro?

L’input iniziale della rivolta era istintivo, ma le componenti culturali erano le più diverse. Solo in seguito subentrarono correnti di matrice marxista che s’identificavano come trotzkiste e leniniste, e più tardi ancora quelle maoiste; c’era poi una componente forgiata dai movimenti libertari americani come quelli legati alla rivolta dell’università di Berkeley che era una rivolta ispirata alle teorie del filosofo Herbert Marcuse. Molti di noi si ispiravano alla corrente post-strutturalista di Louis Althusser. S’incontravano pure gruppi di matrice cattolica che improvvisamente si scoprivano radicali.

Però lei mi fa capire che il movimento non nacque dal nulla, qualcosa di ideologico c’era…
L’ideologia viene dopo. C’erano invece fenomeni culturali che hanno preparato il sessantotto. Tra questi fenomeni c’era la straordinaria rivoluzione dei linguaggi artistici. E poi la sensibilità a certi problemi proveniva dall’insegnamento di discipline nuove, come la sociologia, introdotta in Italia da Franco Ferrarotti e da Alessandro Pizzorno, l’antropologia, la semiotica con Umberto Eco, che in quel periodo aveva la cattedra di estetica alla facoltà di architettura di Firenze. C’era una specie di gemellaggio tra le facoltà di architettura e di lettere e filosofia, così data la vicinanza non di rado mi capitava di incontrare Eco al bar e capitava pure di farci volentieri due chiacchiere.
Uno scatto di Vincenzo Balocchi durante l'alluvione di Firenze - 1966 - Museo di Storia della Fotografia Fratelli Alinari, Archivio Balocchi, Firenze
Benissimo, parliamo del rapporto dell’arte con la politica.

Beh, l’innovazione artistica, cioè le neo-avanguardie italiane e internazionali degli anni ‘50 e ‘60, che non vuol dire solo arti visive ma anche letteratura, teatro, musica e altro, ha avuto la capacità di introdurre delle forme di sovvertimento di tecniche e poetiche tradizionali con un conseguente innovamento espressivo che è penetrato nel sociale anche se non si è tradotto immediatamente in un messaggio politico. Non c’è dubbio che le innovazioni politiche siano state precedute dalle profonde innovazioni artistiche e che queste abbiano funzionato come una sorta di incubazione nel nuovo linguaggio politico del ‘68. In Italia fu importante il Gruppo 63, una folta formazione di intellettuali prevalentemente impegnata sul fronte teorico e critico-letterario, a cui appartenevano personalità come Edoardo Sanguineti, Umberto Eco, Renato Barilli e a cui aderì, credo, anche Achille Bonito Oliva. Tuttavia il trait d’union più immediato tra i due ambiti arte-politica lo ha offerto il situazionismo di Guy Debord, che con il suo celebre saggio La società dello spettacolo introduceva contenuti più marcatamente sociologici e di conseguenza con implicazioni politiche.

Quindi anche il cosmopolitismo delle arti gioca un ruolo determinante nella rivoluzione cultural-politica del ‘68…

Certo, e qui ancora una volta c’è la Francia. Con Debord il nesso tra la dimensione estetica e la dimensione politica è mediato da una matrice di natura socio-antropologica. Per quanto riguarda la Germania, invece, il nesso tra le due dimensioni -estetica e politica- è mediato dalla matrice più schiettamente filosofica della Scuola di Francoforte. Questo schema, se vogliamo, ci dà anche la caratterizzazione delle due culture dominanti: quella francese con una prevalenza del pensiero socio-antropologico e quindi anche estetizzante, e quella tedesca con una prevalenza del pensiero filosofico.

Dunque, professor Marramao, visto a distanza di quarant’anni, il ‘68 fu necessario per la storia? Quale bilancio se ne può fare?
È stato un evento che ha avuto luogo quasi in modo indipendente dalla volontà degli attori. Ci sono dei momenti storici in cui scatta qualcosa nelle coscienze, si avverte un disagio generalizzato che coagula esperienze e storie differenti. In Italia, a differenza di ciò che è avvenuto in Francia e in Germania, il movimento non è riuscito a cambiare le istituzioni. Le lotte sono continuate ben oltre il ‘68, ma è accaduto che dal 1970 in poi ci sia stata una sorta d’involuzione di quel movimento. Un movimento che era espansivo, inclusivo, cosmopolita si è disgregato in qualcosa di settario, esclusivo, identitario di tanti singoli gruppi di lotta. A mio parere, a tradire lo spirito di trasformazione culturale del ‘68 è stata proprio la logica identitaria dei vari gruppi.
Un corteo studentesco nel 1968
C’è un motivo che giustifichi questa dissipazione?

C’è una ragione che ci aiuta a capire, anche se non a giustificare. La ragione è che l’Italia ha subito un trauma che ha una data precisa, il 12 dicembre 1969: la strage di piazza Fontana a Milano. In nessun altro Paese c’è stato qualcosa di simile. Fu un evento clamoroso e tragico nel pieno delle lotte operaie e studentesche che deviò il fuoco dell’attenzione dai problemi reali verso un’emergenza creata ad arte. Quella strage ci aiuta a capire la strozzatura del movimento. Io ricordo perfettamente che dalla speranza delle nostre lotte ci ritrovammo improvvisamente sull’abisso di uno scenario cupo. Abbiamo intuito subito che da quel momento si aveva a che fare con un lato oscuro delle istituzioni. E su quel lato oscuro non si è fatta mai luce.

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dal 17 al 20 aprile 2008
Festival della Filosofia 2008 – Sessantotto. Tra pensiero e azione
a cura di Paolo Flores D’Arcais e Giacomo Marramao
Auditorium Parco della Musica
Viale Pietro De Coubertin, 34 (zona Flaminio) – 00196 Roma
Ingresso libero
Info: tel. +39 8024128106; info@musicaperroma.it; www.auditorium.com

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