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Il mondo dell’arte è in lutto per la morte di Mimmo Jodice, uno dei più grandi fotografi italiani e internazionali, morto oggi, 28 ottobre, a 91 anni. Nato a Napoli nel 1934, Jodice ha dato alla fotografia la dignità di linguaggio artistico, con uno sguardo sempre aperto alla poesia reale della vita quotidiana.
Nato nel Rione Sanità a Napoli il 29 marzo 1934, secondo di quattro figli, Mimmo Jodice crebbe senza il padre e, conclusa la scuola elementare, iniziò subito a lavorare, proseguendo gli studi da privatista. L’arte arrivò presto: teatro, musica classica e jazz, il disegno e la pittura da autodidatta. Alla fine degli anni Cinquanta la scoperta della fotografia, che sarebbe diventata il linguaggio del suo destino. Nel 1962 sposò Angela Salomone, compagna di vita e preziosa collaboratrice. Negli stessi anni frequentò l’Accademia di Belle Arti di Napoli e, con il suo primo ingranditore, inaugurò una stagione di sperimentazioni radicali: materia e forma, nudo e ritratto, oggetti quotidiani ricomposti in chiave astratta.

Nel 1967 decise di dedicarsi completamente alla fotografia. Espone per la prima volta a Napoli, pubblica su Popular Photography, conosce Allen Ginsberg e Fernanda Pivano. È il clima di rinnovamento che lo spinge a trasformare la fotografia in strumento espressivo autonomo.
Il 1968 segnò l’ingresso nel sistema dell’arte con la lunga collaborazione con Lucio Amelio e con Lia Rumma: attraverso di loro entra in dialogo con Andy Warhol, Robert Rauschenberg, Joseph Beuys, Gino De Dominicis, Giulio Paolini, Josef Kosuth, Vito Acconci, Mario Merz, Jannis Kounellis, Sol LeWitt, Hermann Nitsch. Frequenta Filiberto Menna, Achille Bonito Oliva, Angelo Trimarco, Germano Celant, che scriveranno sul suo lavoro. Dal 1969, con Roberto De Simone, affina l’attenzione per feste e rituali popolari, fino al volume Chi è devoto del 1974.

Nel 1970 tiene corsi sperimentali all’Accademia di Belle Arti di Napoli e, dal 1975 al 1994, insegna Fotografia, diventando riferimento per intere generazioni. Con Cesare De Seta condivide uno studio fino al 1988 e durante l’epidemia di colera del 1971 realizza Il ventre del colera, indagine cruda sulle radici sociali della tragedia. Il suo “periodo sociale” culmina in Mezzogiorno. Questione aperta (1975) e in Vedute di Napoli (1980), dove la città, improvvisamente svuotata di figure, si fa scenario metafisico.
Gli anni Ottanta consolidano una doppia traiettoria: da un lato lo spazio urbano sospeso di Napoli e delle grandi città, dall’altro il dialogo con l’antico e l’archeologia. Collabora con Vittorio Magnago Lampugnani, Italo Lupi, Pier Luigi Nicolin, Nicola Di Battista, Álvaro Siza; il legame con George Vallet lo avvicina in modo sistematico ai siti e alle collezioni archeologiche, mentre mostre e libri ridefiniscono il suo lessico visivo: Napoli 1981. Sette fotografi per una nuova immagine, Teatralità quotidiana a Napoli (1982), Gibellina (1982), Un secolo di furore (1986) a Napoli, con Nicola Spinosa, dove rilegge il Seicento napoletano con intensità quasi tattile. Partecipa a Viaggio in Italia e a Esplorazioni sulla Via Emilia, in dialogo con Luigi Ghirri, Gabriele Basilico, Giovanni Chiaramonte, Guido Guidi e altri protagonisti della nuova fotografia italiana.

Nel 1995 Mediterraneo segna la svolta e diventa il suo manifesto, con la mostra al Philadelphia Museum of Art e il volume con testi di George Hersey e Predrag Matvejević. Il mare, i templi, le rovine, le statue: immagini in bianco e nero di una classicità senza tempo, dove l’attesa è materia formale e concettuale. Seguono Paris: City of Light (1998), Isolario Mediterraneo (2000), Old Calabria (2000), la retrospettiva alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma (2000), quindi l’ampia antologica alla GAM di Torino (2001) e, ancora, progetti urbani su Boston, Roma, Milano, New York, Tokyo, San Paolo, Parigi, Mosca. Nel 2011 il Louvre gli commissiona Les yeux du Louvre: ritratti dei lavoratori del museo alternati a volti estratti dai capolavori, una fila di sguardi che annulla i secoli; l’anno dopo il progetto approda a Salonicco e gli vale il titolo di Chevalier de l’Ordre des Arts et des Lettres.

Negli anni Duemila, Jodice continua a lavorare con grande applicazione. Espone al MASP di San Paolo, alla Maison Européenne de la Photographie, al Palazzo delle Esposizioni, al MART e al Madre di Napoli, dove nel 2016 una grande retrospettiva ne mette a fuoco la coerenza poetica. Progetti come Transiti rimettono al centro il volto umano, in dialogo con la ritrattistica dei musei; Naples intime, Paestum, Figure del mare insistono su una geologia della luce che rende i luoghi reperti di tempo, più che paesaggi. Parallelamente, un’ampia bibliografia critico-storica e le grandi committenze pubbliche ne consolidano il ruolo di autore cardine della cultura visuale italiana.
La sua poetica lavora sull’enigma della luce e sulla sospensione del tempo. Il bianco e nero, denso e calibrato, interroga la stessa presenza dell’osservatore, il chiaroscuro risuona come la grammatica di una visione che sempre è riferita a un dato reale ma trasfigurato dalla visione poetica, al di là del tempo ma radicata nello spazio. Le sedie vuote, i moli, i templi, i volti antichi e contemporanei sono variazioni di un’unica meditazione: l’attesa come dispositivo conoscitivo, contro la frenesia del presente.
Nel corso della carriera ha ricevuto riconoscimenti di primo piano: il Premio Antonio Feltrinelli dell’Accademia dei Lincei (2003), la Laurea Honoris Causa in Architettura dell’Università Federico II (2006), il titolo di Chevalier de l’Ordre des Arts et des Lettres (2011).

«Per me quello della Fotografia è sempre stato un tempo lungo, lento. Parto da un progetto: può essere un’inchiesta sul lavoro minorile oppure sulle industrie e gli operai, un racconto sulla scultura, il mare, il vuoto», ci raccontava in una intervista pochi anni fa. «La prima cosa è trovare i luoghi che possano aiutarmi a realizzare il progetto. Cammino molto, torno più volte nello stesso posto, osservo il modo in cui cambia la luce. Poi comincio a fotografare. Non ho lo scatto facile, faccio una foto, poi forse torno per vedere come la luce ha cambiato la percezione del posto. Il mio caro amico filosofo, Paul Virilio, mi diceva sempre: “Mimmo, nous sommes lentes, nous n’aimons pas la rapidité”. Ecco: il mio è un tempo lento, lentissimo».












