21 gennaio 2003

Cento di questi Gioni

 
La pastasciutta, la mamma e la fidanzata l’hanno convinto a tornare nel Belpaese. Ma anche il lavoro. Torna da New York e diventa direttore della Fondazione Trussardi, curatore alla Biennale ed a Manifesta. Massimiliano Gioni si racconta ad Exibart…

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In fine sei tornato. Quanti anni a New York?
Due anni e mezzo forse tre. Alla fine non si torna mai da New York: cerco ancora di passarci molto tempo, di vedere tutto. Anche se a volte fa bene mettere le cose in prospettiva, guardarle da un altro punto di osservazione, lasciarle sedimentare.

Ma lì è così dura come si dice, oppure…
Non ho mai creduto alla mitologia della New York che si ama e si odia, ma di sicuro si tratta di una città che chiede molto impegno, molta attenzione. Di recente un amico mi ha detto che nel 1993 si è toccato unMaurizio Cattelan record assoluto: più di cinquanta inaugurazioni in un’unica sera… New York è anche questo: un’offerta incontrollata, trascinante, nella quale è facile perdere l’orientamento. Ma è anche una città ricettiva, aperta: penso sia più facile trasferirsi a New York che a Londra, Parigi o Milano. Forse ci sono meno barriere o semplicemente c’è più curiosità.

Cosa ti ha convinto a ritornare in Italia?
La pasta, la mamma e la fidanzata naturalmente.

Appena arrivato a Milano sei diventato subito curatore di una sezione della prossima Biennale, direttore della Fondazione Trussardi e co-curatore della prossima Manifesta. Che te ne pare?
Poteva andare peggio, ma c’è ancora tempo per sbagliare e fallire alla grande. Fatti i debiti scongiuri, la ragione per cui sono più spesso in Italia è proprio per lavorare a questi appuntamenti. Ultimamente si parla molto dei curatori e degli artisti abbonati ai voli intercontinentali, ma per ogni progetto si deve fare molto lavoro sul territorio, cercare di conoscere la realtà in cui ci si muove.
Maurizio Cattelan
Parliamo della Fondazione Trussardi. Quale ruolo avrà questa istituzione. Come si collocherà nello scenario milanese?
La scommessa è quella di ripensare la struttura tradizionale di una fondazione: lavorare quindi non tanto alla creazione di un luogo o di una collezione, quanto piuttosto cercare di mettere in moto un’agenzia di produzione di eventi di arte contemporanea, che possano viaggiare in diversi canali. Quindi mostre, esposizioni, ma anche pubblicazioni o piccole incursioni. Una fondazione per la produzione e la distribuzione dell’arte contemporanea, con l’ambizione di creare occasioni in cui anche il pubblico non specializzato possa incappare nelle manifestazioni più interessanti della contemporaneità.

Si, ma… in parole povere?
In parole povere significa lavorare a progetti studiati insieme agli artisti per infiltrarsi in luoghi storici o simbolici della città, ma significa anche usare gli spazi più defilati per fare un po’ di rumore e comunicazione: così ad esempio, ogni volta che la Fondazione si espone in pubblico o con qualche comunicazione istituzionale, abbiamo deciso di lasciare spazio agli artisti. E così la cartolina degli auguri di Natale la si fa fare a Paul McCarthy, mentre Roberto Cuoghi ha disegnato la nostra prima pubblicità, oppure – nel caso della piccola pubblicazione Panorama Milano – si invitano architetti, artisti, designer, stilisti e fotografi a comporre un collage di immagini che raccontino Milano, come a costruire una prima mappa immaginaria della città in cui stiamo cercando di lavorare.

Ma come? Un libro sulla creatività milanese proprio ora che mezz’Italia parla di crisi per la capitale del nord. E’ un modo per negare la stagnazione culturale in atto, per esorcizzarla o per risorgere?
Non so quanto le questioni campaniliste aiutino l’arte o la cultura. E’ vero che ci sono città che di recente hanno investito più risorse nell’arteFrancesco Vezzoli contemporanea, con grande successo di immagine, ma è anche vero che a Milano esiste un tessuto di energie, storie e cultura alla quale ci è sembrato opportuno guardare prima di iniziare la nostra attività. Il libretto Panorama Milano non serve per fare rivendicazioni o esorcismi: è un piccolo gesto o se vuoi solo una prima ricognizione, per guardare alla città con gli occhi di chi l’ha trasformata e fatta in qualche modo propria.

Per chiudere rischio la banalità. Ma la domanda sulla Biennale non te la posso risparmiare. Cosa hai in serbo?
Sono stato invitato dal direttore della sezione arti visive, Francesco Bonami, a curare un progetto dedicato all’arte italiana. Si tratta di una collaborazione con un gruppo di architetti genovesi, gli A12, che da tempo lavorano al confine tra arte e architettura. L’idea è quella di creare uno nuovo spazio per l’arte contemporanea italiana, ma l’ambizione è anche quella di costruire una piccola mostra che non rifletta tanto sull’italianità della nostra arte: piuttosto si tratta di offrire uno spaccato che parli dell’Italia, ma in maniera laterale, per metafore, nel tentativo di riflettere le ricerche di una generazione che vive la propria identità nazionale e culturale con molta più flessibilità. Una generazione che magari parla al cellulare con un amico di Berlino, mentre ancora si scambia qualche battuta in dialetto con mamma e papà.

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[exibart]

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