08 novembre 2009

DAL MIELE ALLE CENERI

 
La scorsa settimana è morto l’antropologo più celebre d’Europa e forse del mondo. Ha scritto una manciata di libri fondamentali, dai Tristi tropici all’Antropologia strutturale. Non gli piaceva affatto viaggiare e aveva parole dure per il turismo. Un altro grande del Novecento se n’è andato...

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Claude Lévi-Strauss non amava viaggiare. Quella che può sembrare un’affermazione stravagante da parte dell’antropologo più illustre, tanto osannato quanto contestato, si spiega in realtà con una serietà d’altri tempi: lo studioso detestava infatti “i viaggi e gli esploratori” (Tristi tropici, 1955), ammettendo anzi candidamente di aver compreso molto presto come l’azione “sul campo” non fosse il suo forte.
Lo spostamento fisico era per lui necessario solo e unicamente in funzione di una ricerca, di una scoperta, di un percorso conoscitivo; l’esatto contrario del “turismo”. Così, ha pensato bene nel corso dei decenni di trasformare l’antropologia in una disciplina concettuale, capace di irradiarsi in direzioni infinite e di fecondare i campi più disparati della conoscenza e della produzione culturale: “A partire dall’esperienza etnografica, intendiamo sempre redigere un inventario dei recinti mentali, ridurre dei dati apparentemente arbitrari a un ordine, raggiungere un livello in cui si rivela una necessità immanente alle illusioni della libertà” (Il crudo e il cotto, 1964).
Come nota Edward Rothstein, “molti dei suoi libri includono diagrammi che sembrano mappe di geometria interstellare, formule che evocano tecniche matematiche e fotografie in bianco e nero di facce scarnificate e rituali esotici”: Claude Lévi-Straussqueste giustapposizioni visive restituiscono in maniera immediata il senso di un’operazione culturale di frontiera, di una ricerca epica e ambiziosa che ha come oggetto, sin dall’inizio, le radici dell’espressione umana. Né più, né meno.
Chiaramente, si tratta di un uomo che è sopravvissuto alla sua epoca e al mondo che lo ha portato a rifondare un’intera disciplina, riuscendo a vedere da vicino un tempo in cui la logica del diverso è stata talmente deformata e stiracchiata da cancellarlo e annullarlo come riferimento, e in cui – tanto per fare un esempio – i coccodrilli di uno dei più grandi intellettuali del Novecento sui maggiori quotidiani di un paese si assomigliano tutti, dal momento che sono scopiazzati dall’immancabile Wiki. Ma tant’è.
Che cosa ha insegnato Lévi-Strauss, nella sua lunga attività, alla cultura contemporanea? Innanzitutto, la capacità di definire e comprendere l’Altro, attraverso un ripensamento dei concetti di “primitivo”, “selvaggio”, “barbaro”. L’idea fondamentale di confutare l’eurocentrismo e l’equazione vecchia di secoli tra civiltà e cultura occidentale, sganciando l’antropologia dall’eredità del colonialismo, e intuendo fra i primi i pericoli di una monocultura globale. Come afferma a questo proposito Jean Daniel: “Il pensiero selvaggio non è il pensiero dei selvaggi, bensì un pensiero non ancora addomesticato”.
Così, gran parte del pensiero post-coloniale e multi-culturale – delle infinite propaggini, deviazioni e perversioni tanta arte contemporanea e post-concettuale si nutre – discende in gran parte proprio da qui. Da opere come Antropologia strutturale (1958), Pensiero selvaggio (1962) e i quattro volumi delle monumentali Mitologiche: Il crudo e il cotto (1964), Dal miele alle ceneri (1967), Le origini delle buone maniere a tavola (1968) e L’uomo nudo (1971).
Si spera che, esaurite le derivazioni post-strutturaliste in cui Lévi-Strauss per primo non si riconosceva minimamente, la sua opera acquisti una nuova freschezza e rimanga un riferimento centrale per l’indagine della cultura e della storia, anche visiva, nel XXI secolo, oggetto riletture, reinterpretazioni e riscoperte da parte di chi vorrà coglierne suggerimenti e sfide che rimangono ancora attuali.
Claude Lévi-Strauss
Come scriveva lo stesso Lévi-Strauss: “L’etnologo si interessa soprattutto a ciò che non è scritto, non tanto perché i popoli che egli studia sono incapaci di scrivere, quanto perché ciò che lo interessa è diverso da tutto ciò che gli uomini pensano solitamente di fissare sulla pietra o sulla carta. Finora una suddivisione dei compiti, giustificata da tradizioni antiche e dalle necessità del momento, ha contribuito a confondere gli aspetti teorico e pratico della distinzione, e quindi a separare più del necessario l’etnografia dalla storia. Solo quando affronteranno insieme lo studio delle società contemporanee sarà possibile valutare adeguatamente i risultati della loro collaborazione, e convincersi che, qui come altrove, non hanno potere l’una senza l’altra” (Storia ed etnologia, 1949, in Antropologia strutturale).


christian caliandro


 


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