05 febbraio 2012

È la stampa bellezza!

 
Una chiacchierata che prende spunto dalla nomina di Massimiliano Gioni alla direzione della Biennale Arti Visive. Il ruolo dei giornali, i commenti degli esperti, la notizia raccontata Oltreoceano. Un’occasione per riflettere su come i mass media vedono l’arte contemporanea nel nostro Paese, ma anche per fare il punto sulla presenza dei critici, tra salti generazionali, profili internazionali e la marginalità dell’Italia

di

Ludovico Pratesi: Cara Adriana, leggendo la notizia della nomina di Massimiliano Gioni alla direzione della prossima Biennale Arti Visive, mi sono venute in mente alcune riflessioni che avevo piacere di condividere con te.

L’Italia è stata la prima nazione al mondo ad applicare la struttura delle Expò universali all’arte contemporanea con la Biennale di Venezia, fondata nel 1895 da un Paese neonato (aveva allora soltanto 25 anni), ma assai coraggioso e lungimirante, se pensi che la Germania risponde con Documenta di Kassel nel 1955, 60 anni dopo. La classe dirigente dell’epoca era evidentemente consapevole della necessità di promuovere l’eredità artistica del nostro passato nel presente. Ti chiedo dove sono finiti oggi, a 150 anni di distanza, il coraggio e la lungimiranza dell’Italia di allora? 
Adriana Polveroni: «Purtroppo mi pare che la risposta sia sotto gli occhi di tutti. È finita male, sepolta in una società che non crede molto a se stessa e che soprattutto non crede nel proprio futuro. Non investendo neanche nel presente, che penso sia il modo più intelligente per valorizzare il patrimonio del passato. Tutto ciò è palese nella cultura, ma purtroppo anche in altri ambiti, e forse la cultura è la cartina di tornasole del decadimento generale. Ma andiamo avanti, questi discorsi sono piuttosto lugubri e io non amo molto piangermi addosso». 

L.P. Mi ha colpito il modo con cui è stata riportata la notizia di Gioni. I due nostri maggiori quotidiani nazionali, “Repubblica e “Corriere della Sera” hanno commentato la nomina in maniera capziosa: “Repubblica” ha privilegiato critici italiani di tre generazioni precedenti, che evidentemente fanno ancora audience presso un pubblico che considera il contemporaneo qualcosa di estraneo, addirittura minaccioso. Il “Corriere della sera” ha affidato a un giornalista la notizia, il quale poi ha concluso invitando Gioni a prendere le distanze da quella cultura “intellettual chic” che domina il mondo dell’arte internazionale. Come vedi questa situazione e qual è a tuo avviso la percezione che la stampa ha della popolarità dell’arte contemporanea, così forte all’estero e relegata ad un gioco da ragazzi da noi?

A.P. «Quello che più mi colpisce è che il primo quotidiano italiano, il “Corriere della sera”, non abbia un critico cui affidare il commento di questa nomina, mi sembra un fatto piuttosto grave. Non penso abbia giocato la fretta di rilanciare la notizia, quanto l’assenza di persone competenti per farlo in maniera corretta. E questo evidenzia la distanza dei nostri maggiori organi di informazione dalla cultura contemporanea. La Biennale di Venezia è una manifestazione largamente frequentata dal pubblico, non solo dagli addetti ai lavori. Ma questo i nostri giornali non lo capiscono, pensano che l’arte contemporanea sia un che di elitario che interessa un enclave poco significativa di sfaccendati. Mi ha colpito positivamente invece la scelta della “Stampa” che ha dato voce a Francesco Bonami, il quale ha esteso lo sguardo sull’affermazione dell’Italia dell’arte a livello internazionale: Gioni, il successo della mostra di Cattelan a New York, la direzione della prossima Documenta di Carolyn Christof Bakargiev, anche se lei è italiana fino ad un certo punto. Bene ha fatto anche “Il Giornale” che ha affiancato ai prevedibili insulti di Sgarbi il parere di tutt’altro segno di Luca Beatrice. Insomma, qualcosa si è mosso, e il fatto che “Repubblica” si rivolga solo a Celant e a Bonito Oliva rivela lo scarso coraggio della scelta, ma anche forse la mancata affermazione di critici più giovani presso un pubblico più vasto».
              

L.P. Anche autorevoli testate straniere si sono occupate dell’argomento con diverse sfumature. Mentre sul “New York Magazine” Jerry Saltz ha espresso chiaramente il suo entusiasmo, altri sono stati più cauti, quasi a voler significare che il nostro Gioni, celebrato in patria, debba ancora dimostrare molto del suo talento nel Paese dove lavora. Le stessa cautela l’ho riscontrata nel commento di Angela Vettese sul “Sole 24ore”, che sembra provenire dall’esponente di una generazione di curatori che, nonostante un impegno pluridecennale, risulta schiacciata tra due blocchi: i settantenni e i quarantenni di oggi. Sei d’accordo?
A.P. «I giornali stranieri sono stati per lo più prudenti, è vero. Ma le uniche due figure veramente internazionali, Saltz e Bice Curiger, interpellata in realtà da RaiEdu, sono stati molto positivi e questo mi sembra il dato rilevante. Quanto alla cautela di Angela Vettese, di cui non metto in dubbio l’autorevolezza, forse la spiegazione sta in quello che dicevo prima: c’è un salto generazionale. E i giornali lo registrano».

L.P. Ti suggerisco un altro tema su cui riflettere: la nostra recente e connaturata esterofilia. Gioni arriva a dieci anni di distanza da Bonami (Biennale 2003), dopo un escalation di curatori stranieri chiamati da un Paese che, pur di non scegliere un italiano a rappresentarlo nel consesso internazionale, stanerebbe un indigeno dalle Samoa o un esquimese dalla Groenlandia. E’ un vero problema avere il passaporto tricolore e non essere andati a lavorare all’estero?
A. P. «Evidentemente sì. In tempi recenti, sia ABO che ha diretto la Biennale nel ’93, che Celant e Bonami, erano figure internazionali, due di loro avevano lavorato lungamente all’estero, come lo è ora Gioni. Quindi, diciamo che l’Italia va stretta alla Biennale. E forse è anche giusto. Penso che chi dirige la Biennale debba avere necessariamente uno sguardo e conoscenze molto ampie e che la presenza di una figura del genere faccia bene anche all’arte italiana. Poi le scelte sono un’altra cosa, discutibili come sempre, ma forti di una forte competenza che non può essere solo “italiana”».

L.P. Guarda caso, l’unico commento intelligente sulla nomina del “giovane direttore” è arrivato proprio da un artista emigrato. Cattelan dice: «Mi fa piacere che sia stato scelto un curatore italiano: abbiamo dei curatori bravissimi, ma soffriamo di un complesso di inferiorità. Quando si tratta di realizzare grandi manifestazioni internazionali guardiamo troppo spesso all’estero». Parole che la dicono lunga proprio perchè vengono da un italiano che si è trasferito a New York da anni. Per chi è rimasto qui ad assistere alla decadenza del nostro Paese non ci sono più speranze?
A.P. «Spero di no, ma certo è che dobbiamo recuperare molta credibilità a livello internazionale e se continuiamo a presentarci con un Padiglione Italia come quello dell’ultima volta, non lavoriamo in questo senso. Facciamo un cattivo servizio ai nostri artisti, ai nostri critici – possibile che non ci sia niente di meglio? si saranno chiesti all’estero –  e al nostro mercato. Penso però che alcune cose stiano cambiando e che non ci sono molte più scuse per far finta di non accorgersene. Anche nella cultura contemporanea».

8 Commenti

  1. La cosa fondamentale da dire è che però questa è una nomina giusta, adatta, ed era grandemente auspicabile. Quando mai in un paese come il nostro capita che le selezione sia in base al merito? Gioni è l’uomo giusto nel posto giusto. Speriamo poi che la ciambella gli riesca con il buco. Di sicuro il cuoco è all’altezza.

    Nell’articolo di Bonami (era da molto che non gli sentivo dire così intelligenti di buon senso) si parlava inoltre anche dei padri/padroni della critica come ABO e Celant, che sono stati a lungo ritenuti gli unici sacerdoti popolar credibili dall’intellighenzia gauche caviar italiana (cos’è in fondo Repubblica?), che non a caso è la più conservatrice, noiosa ed piena di cliché dell’occidente, e ha sacrificato la generazione dei 50enni.
    Ben vengano i giovani come Gioni & co, preparati, di esperienza internazionale bravi e che non hanno l’odore delle solite parrocchie!

  2. Caro Ludovico,

    ti invito e invito a leggere questi articoli apparsi su flash art italia tra il 2009 e il 2010:

    http://www.whlr.blogspot.com/2011/11/question-time-flash-art-italia-ottobre.html

    Mi sembra fosse tutto chiaro sul sistema italia in rapporto alla scena internazionale, e su complessi di inferiorità ed esterofilia dilaganti.

    Stesso discorso per il VUOTO che la tua generazione (stessa della vettese e co) avete, più o meno colpevolmente, lasciato tra il “migliore” sistema dell’arte contemporanea e il pubblico, il sistema politico e il sistema mediatico…in italia si da per scontato, da 20 anni, un pubblico per l’arte contemporanea che non esiste quando quello che c’è coincide con quattro addetti ai lavori, loro amici e curiosi.

    L’assenza di pubblico deprime la qualità e favorisce i soliti giochini di potere. Gioni si è salvato andando semplicemente all’estero. Ricordo chiaramente che durante la prima presentazione del festival internazionale di faenza, disse che era uscito dall’italia perchè in italia tutti i posti erano occupati e blindati (vorrei ricordare che la Vettese occupa più posti contemporaneamente, in modo legittimo ma in barba al ricambio generazionale e ai conflitti di interesse tanto criticati in Berlusconi).

  3. Caro Daniele,
    il punto su cui non mi trova d’accordo Bonami è il trionfalismo con cui esalta la nuova genia italica di curatori…a me sembrano francamente dei grandi chef capaci solo di preparare pietanze precotte…come spieghi il fatto che negli ultimi dieci anni non un solo artista italiano si stato presentato all’estero? Possibile che nessuno passi il San Gottardo? Non è che Gioni e gli altri vengano così ricompensati per aver ucciso il sistema arte italiano, eliminando così un pericoloso concorrente?

  4. Caro Giampaolo,
    trovo che i curatori italiani siano nè migliori nè peggiori del sistema italiano; sono semplicmente in difficoltà. Chiariamocelo: gli artisti italiani non fanno strada all’estero perché sono sostenuti solo da un mercato che non è ai livelli di quello tedesco o svizzero. In più la parte pubblica fa male il proprio ruolo con acquisti, borse di studio, ecc, per cui un artista italiano è sostenuto solo dalle gallerie, che troppo spesso lavorano sul mercato e non sull’arte. Come possono crescere gli artisti del nostro paese se non si misurano in un contesto internazionale?
    E veniamo al punto di cui mi chiedevi. Come fanno i curatori a sostenere gli artisti italiani quando non hanno budget, contatti, mostre in musei ma al massimo sono sostenuti delle gallerie che si svenano per tenerli in vita? Il problema è che il nostro sistema è inefficiente e costoso, ma che garantisce ai soliti noti rendite di posizione. Ovvio che gli altri all’estero ne approfittano godendo come ricci.
    Non vedo i curatori italiani che lavorano fuori come il WWF degli artisti del Belpaese…

  5. Mi rendo conto che non ho chiarito il mio punto. Positivo il successo dei critici italiani, il problema è che non sono più italiani, se capisci cosa intendo…mi spiace, non son molto bravo a esprimere i miei concetti, non ho fatto studi accademici per cui le mie idee sono solo istintive e come tali raramente frutto di una sequenza di ragionamenti che riesco a trasmettere….tutto quello che elenchi tu è vero, anche se penso che per un artista crescere nel paese di Boetti e Fontana (per non parlare di Pascali e De Dominicis) sia una sfida all’altezza se non superiore a quella di qualsiasi altro contesto…Celant e Bonito Oliva fecero a loro tempo “la cosa giusta”, Achille con un successo più visibile da subito, l’autorevolezza di Gioni, Bonami come l’hanno usata? Detto questo, lecito da parte loro farsi i propri affari, fare quello che gli porta più riconoscimento internazionale, ma critici italiani quello non lo sono mai stati.

  6. Oramai scontato che l’illuminato Luca Rossi illumini(crede d’immenso)quotidianamente il mondo dell’arte italiano.
    Come solo i veri “magutt” sanno fare.
    Fremendo l’attendiam con certezza doman.

  7. Ciao Giampaolo,
    penso che però – come scritto ragionevolmente da Bonami nel pezzo per La Stampa – una scuola italiana di critici non ci sia stata. Un po’ perché da un lato il mondo accademico, quasi nel completo, non si è occupato oppure non ha mai dimostrato di essere all’altezza del contemporaneo, con il risultato che frequentemente professori blasonati hanno preso dei granchi enormi puntando su artisti che non hanno non solo il peso della storia, ma anche quello di un decennio. Dall’altro lato ABO e Celant sono diventati, ciascuno con le proprie caratteristiche, padroni della scena e hanno lasciato solo gli avanzi agli altri, impedendo che si formassero delle figure che potessero raccoglierne l’eredità, all’insegna dell’italianissimo adagio “meglio comandare che fottere”.
    Penso che sia una fortuna che intellettuali italiani siano riconosciuti al di fuori, ma non penso che si possa chiedere loro di diventare difensori dell’italianità tout court (come ad esempio capita al settore enogastronomico con i cuochi). Sarebbe esagerato ed infantile aspettarsi che dei singoli potessero contrastare le mille vergogne di un sistema che non funziona…

  8. Questa è solo una bella notizia. Gioventù ed esperienza in un’unica persona. Certo il tutto è più difficile rispetto all’estero. Questo è un paese che si ferma ad ascoltare un ignorante (lui stesso autodefinitosi tale) come Celentano e ad osservare la farfalla di Belen. In bocca al lupo…

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui