18 novembre 2019

Einat Amir, tra relazioni umane e limiti e possibilità della comunicazione

di

Una nuova conversazione del ciclo “Avanti&Indietro” a cura di Raffaele Gavarro. Stavolta, sotto la lente, il lavoro dell'artista israeliana Einat Amir

Einat Amir
Einat Amir and Orly Idan, Pragmatic Failure , 2017

L’undicesima conversazione di “Avanti&Indietro” è con Einat Amir, artista nata a Gerusalemme nel 1979 e di base a Tel Aviv. Lavora con i linguaggi del video e della performance, ed è da sempre concentrata sulle relazioni tra le persone, sui limiti e sulle possibilità della comunicazione.

Cominciamo proprio dalle ragioni sulle quali si fonda il tuo lavoro, e cioè il rapporto tra le persone e le modalità sulle quali si regola la comunicazione tra di loro, tra di noi. Mi pare evidente che la causa del tuo interesse si fondi, prima di ogni cosa, proprio sulla natura del luogo nel quale sei nata e nel quale vivi. Eschilo, nel Prometeo Incatenato, faceva dire al Titano in un dialogo con Zeus, “che la tecnica è di gran lunga più debole della necessità”, subordinando quindi la prima alla seconda: l’uomo inventa una tecnica se ha una necessità. Io credo che nell’arte, e specialmente in quella attuale, i bisogni espressivi siano subordinati prima di tutto alla realtà, nella sua estensione analogicodigitale, e che sia questa, parafrasando Eschilo, a determinare una necessità.

«Vedo nella tua osservazione qualcosa di utopico – come vedo molta arte che viene fatta oggi, e sempre, come ostinatamente resistente a un legame con la realtà. Naturalmente, questa è una reazione alla realtà in sé – tuttavia è un aspetto altamente soppressivo. Ho vissuto in Israele negli ultimi 7 anni, dove la realtà politica è violenta e opprimente, comprese le politiche riguardanti la cultura – l’anno scorso, ad esempio, il Ministro della Cultura di Israele ha avuto successo nell’attuare un regolamento che afferma che le istituzioni culturali e i produttori di cultura che esibiscono/producono qualcosa che possa essere interpretato come contrario al carattere ebraico e alla narrativa sionista, saranno immediatamente privati dei finanziamenti statali. Le opere che sostengono la pace, la convivenza e altri valori umanistici, sono dunque state ufficialmente bandite dallo stato. Peggio ancora, intellettuali palestinesi come il poeta Dareen Tatour sono stati incarcerati per “incitamento al terrorismo” nella loro arte. Vivere in una tale realtà potrebbe renderti piuttosto intollerante riguardo al tema del rapporto tra arte e realtà. L’arte dovrebbe essere un luogo in cui vengono create narrazioni che possono reagire e formare una nuova realtà. Questo è il lavoro molto importante e urgente dell’artista: capire la realtà e ripensarla, riformularla liberamente. Se non fosse importante, se non fosse causa di conseguenze importanti, non ci sarebbero così tanti casi di silenzio e censura violenta da parte di governi oppressivi. Quando cercano di seppellirti, significa che la tua voce viene ascoltata. Sfortunatamente, qui in Israele e in tutto il mondo, penso che molti artisti scelgano ancora un approccio molto tradizionale rispetto al significato che ha oggi la pratica artistica, e non avvertono l’urgenza di relazionarsi con il grande fuoco che circonda il loro studio».

Einat Amir
Einat Amir and Yossi Hasson_Basic Assumption_2017

Non credo che il rapporto tra arte e realtà, o meglio la necessità dell’arte di essere parte costitutiva della realtà, sia oggi ascrivibile al segno dell’utopia. Però è vero che questo può essere la causa di censure all’arte da parte dell’autorità che ritiene, su mandato democratico o meno, di esercitare un controllo sulla realtà. In questi casi, che sono più frequenti di quelli che s’immagina anche nel mondo occidentale, l’utopia diventa una conseguenza inevitabile. Nel caso del tuo lavoro mi pare che la questione si possa porre in questi termini, nel senso che tutto il tuo riflettere e agire sulle relazioni tra le persone, su quanto la comunicazione sia essenziale e su quanto sia complessa, nasca proprio da una realtà nella quale questa dinamica sia tanto centrale quanto soppressa. Ma non potrei definire il tuo lavoro utopico in sé, piuttosto critico, e certo in grado di stimolare riflessioni e portare dei cambiamenti. Ma è anche vero che questi ultimi potrebbero essere intesi come utopici.

 

«Interessante. Non ho mai pensato che il mio lavoro avesse una relazione con l’utopia. Anche se penso che possa essere collegato a concetti psicologici a cui sono interessata, come l’iper-consapevolezza e la catarsi. Mi piace la parola Utopia perché sembra riferirsi a una visione sociale, e non a un sentimento individuale, che si riferisce al mio lavoro. Negli ultimi anni mi sono interessata al campo della psicologia sociale, che trovo molto importante per la mia pratica. La psicologia sociale è lo studio di come le persone agiscono, pensano e sentono nel contesto della società, in contrasto con la psicologia individuale, che tratta le emozioni nel contesto dell’individuo. Questo interesse mi ha portato a collaborare con gli psicologi sociali, in particolare il prof. Eran Halperin per realizzare la performance partecipativa Emotion in Conflict Lab all’IDC di Herzliya, in Israele. Negli ultimi tre anni ho avviato, insieme ai ricercatori in laboratorio, una serie di collaborazioni, in cui abbiamo sintetizzato la mia pratica performativa e gli esperimenti psicologici. Abbiamo creato un modello ibrido che combina esperimenti psicologici in tempo reale e performance partecipative in spazi artistici nel contesto di mostre e festival. Questo modo di lavorare inventato, mi permette di estendere la membrana tra la realtà conflittuale in cui vivo, la mia pratica artistica e la ricerca scientifica, e ottenere prospettive diverse».

Einat Amir
Einat Amir and Yossi Hasson_As Much As You Want_2018

As Much As You Want del 2018 è l’ultima performance della serie Emotion in Conflict Lab. L’hai realizzata in collaborazione con lo psicologo Yossi Hasson al Links Hall di Chicago, dimostrando i diversi livelli d’empatia delle persone, in questo caso americane, di fronte ai problemi dei rifugiati siriani. Lo scopo era quello di comprendere le differenze tra un’empatia di tipo limitato verso un piccolo gruppo di persone e quella illimitata verso gruppi piuttosto numerosi. Stai ancora analizzando i dati che hai raccolto per sviluppare una nuova ricerca che valuti il fenomeno del Collasso della Compassione in un nuovo contesto.

Quanto è stata determinante l’incidenza della scienza in questo lavoro e come sei riuscita a coniugarla alla ricerca artistica? Te lo chiedo perché proprio la relazione tra queste modalità d’indagine e conoscitive, scienza e arte, portate su un campo sociale e politico, se non un’utopia, rappresenta un modo per l’arte di superare le tradizionali modalità rappresentative, che l’hanno caratterizzata per secoli, partecipando direttamente alla realtà e alla sua comprensione.

«Il processo che ha portato alla realizzazione di questo progetto, come del resto quello degli altri due progetti che ho realizzato con psicologi sociali, ha comportato un’elaborata commistione tra il ruolo dello scienziato e quello dell’artista: abbiamo lavorato su tutti gli aspetti del progetto in modo paritetico, dalla scrittura dell’ipotesi sulla base dei nostri interessi reciproci, confrontando il lavoro precedentemente svolto in questi due campi, fino alla redazione degli script per gli esperimenti preliminari online come di quelli delle performance. Una collaborazione che ha incluso la scelta degli artisti con i quali collaborare, la creazione di installazioni o di altri aspetti propriamente artistici. Naturalmente, questo metodo di lavoro ha stimolato molti momenti conflittuali tra le nostre diverse prospettive e desideri, ma ha anche notevolmente giovato sia agli psicologi che a me stessa. Abbiamo posto sotto osservazione lo spazio artistico e il laboratorio come due ambienti che mirano a simulare “il mondo reale”, ma in condizioni controllate. Tuttavia, ci sono aspetti in cui la sintesi risulta difficile: mentre un esperimento psicologico si concentra su un pubblico futuro (i lettori dell’articolo e gli altri scienziati), l’essenza della performance art si concentra sul qui e ora, il momento e le persone che sono presenti nel momento in cui avviene. Inoltre, mentre la ricerca scientifica si sforza di definire in modo chiaro e preciso fenomeni e sintomi, l’arte vuole essere “libera”, complessa e aperta all’interpretazione».

Vorrei riflettere con te proprio su questa questione del tempo, così decisiva per la performance, ma io direi per l’arte tutta, specialmente oggi. Nello specifico mi pare che si stia facendo una certa confusione tra la condizione di presente, del qui e ora, che le nuove tecnologie hanno reso assoluta e dominante anche nel nostro quotidiano, e il concetto di contemporaneità. Mi pare, infatti, che sia in atto un’ingannevole sovrapposizione tra presente e contemporaneità, mentre io ritengo che quest’ultima sia appunto una concettualizzazione del tempo presente, che implica quindi un pensarlo e comprenderlo. Un processo che invece è considerato inutile visto l’immanenza istantanea e in continuo divenire del presente. È una trappola micidiale che sta depauperando molto delle nostre possibilità di una conoscenza di quello che siamo e, naturalmente, in prospettiva di quello che saremo, ma nondimeno di quello che siamo stati.

«Sono d’accordo con quello che scrivi. Penso al contemporaneo come ad un’interpretazione, e spesso molto soggettiva, di ciò che è il momento presente. Quando si parla di Contemporaneità, si crea un’immagine selettiva critica di ciò che dovrebbe e non dovrebbe essere parte del Presente. In questo senso, la Contemporaneità è l’evoluzione intellettuale dell’atto del vedere. Pensiamo che la nostra retina stia semplicemente creando un riflesso del mondo esterno, mentre in realtà è una raccolta di pixel determinata dal nostro cervello. Vediamo ciò che il nostro cervello ci permette di vedere. Ad esempio, normalmente non ricordiamo il nostro Punctum Caecum – il punto cieco nel nostro campo visivo. Alcuni processi nel nostro cervello interpolano il punto cieco basandosi sui dettagli circostanti e le informazioni dettate dall’altro occhio, quindi non percepiamo il punto cieco. Direi che la nostra idea del contemporaneo è piena di punti ciechi intenzionali e involontari». 

Einat Amir
Einat Amir, Enough About You, Lilith Performance studio, 2011

Ma se ci sono dei punti ciechi, pensi che sia possibile indagarli? O meglio: non pensi che sia proprio questa la funzione dell’arte oggi? Ed è corretto pensare che proprio in questo indagare i punti ciechi, che sono disordinatamente disseminati nella complessità della realtà nella quale siamo, ci sia la ragione per la quale l’arte di oggi sia diventata un ambito di sintesi inedita del pensare e dell’esperire attuale?

«Perché l’arte è una sintesi migliore del pensiero e dell’esperienza che la scienza? E quali punti ciechi scegliamo di esplorare, e cosa li rende punti ciechi e non solo punti di evasione? Gli artisti a volte collocano l’arte in un posto così superiore rispetto ad altre pratiche, rispetto al mondo. C’è un pericolo in questo. Un pericolo di perdita di dettagli e opportunità e di non scoprire la creazione e la creatività in luoghi non artistici. Dovremmo davvero uscire di più con ingegneri, medici e chimici. Uno dei nostri più grandi punti ciechi è la sensazione che stiamo facendo qualcosa che è completamente in una categoria diversa e non può essere paragonato a nient’altro».

 

 

Nota: per ragioni editoriali la conversazione qui sopra pubblicata è solo una parte dell’originale. Sarà possibile leggere la versione integrale nel libro in preparazione che avrà lo stesso titolo della rubrica, AVANTI&INDIETRO – 18 conversazioni sull’arte nella realtà e nel tempo analogicodigitali.

 

Traduzione dall’inglese di Raffaele Gavarro

 

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