12 gennaio 2005

Estremo… Oriente

 
di gabriela jacomella

A Snake of June è l’ultimo capolavoro dell’autore che si rivelò con Tetsuo. Prosegue l’avventura di un cineasta straordinario e conturbante. Nei suoi film, tutte le contraddizioni del Giappone contemporaneo. Ecco a voi Shinya Tsukamoto. E’ lui l’anti-Murakami?

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Un regno di confine dove la purezza si fonde con la perversione, e la fisicità è esasperata dalla fascinazione dell’orrido e della contaminazione. Una terra di nessuno in cui l’occhio dell’artista si aggira e seleziona istantanee estreme, brandelli di un’umanità inerte e disperata, simbolo di un Giappone contemporaneo che si erge a metafora di una condizione esistenziale sempre più globalizzante e globalizzata.
Il cinema di Shinya Tsukamoto (dai primi esperimenti de Il ragazzo dal palo elettrico, girato in un 8mm torbido e sgranato, fino al bianco e nero intriso di pioggia e sfumature bluastre di A Snake of June, premio speciale della giuria nella sezione “Controcorrente” a Venezia, nel 2002) abdica alla narrazione, che si fa trama sfilacciata e spesso incoerente, per concentrarsi sul portato emotivo di una materia visiva volutamente grezza. I suoi film sono uno one man show ossimorico in cui ogni inquadratura si appropria di una valenza estetica e semantica indipendente, vero e proprio still life che rievoca, soprattutto nelle opere più recenti (A Snake of June, ma anche Gemini-Soseiji del 1999 e il contemporaneo Bullet Ballet), il fascino perverso della purezza che scaturisce dalle fotografie di Takao Maruyama: una purezza perturbante in cui la perfezione di un fiore, la curva di un volto o la simmetria di un ikebana si trasformano nel malessere sottile dell’immanenza della putrefazione.
Ecco un tema centrale in Tsukamoto: il corpo umano come organismo vivente che in sé riunisce e palesa, somatizzandole, le contraddizioni dell’esistenza. Corpo che si fa veicolo di pulsioni e sentimenti, destinati a trovare concretizzazione nel risveglio di una carne troppo a lungo castrata da rituali antichi e soffocanti e dall’ipercinesi delle megalopoli nipponiche. Nelle immagini di Tsukamoto come nel bianco e nero verticale dei manga (l’instabilità delle tavole tagliate di sbieco di Ryoichi Ikegami, le atmosfere precise e levigate di Tsutomu Takahashi) il sesso si fa esplicito e al contempo assume un significato rituale, arrivando a ribaltare il senso comune per riscoprirsi (soprattutto in A Snake of June) simbolo di un paradossale moralismo.
Ed è tutta una trama di sottosensi resi espliciti da scelte espressive che reinterpretano gli stilemi della visualità orientale, dalle strade deserte di una Tokio postatomica che richiamano il rigore compositivo dei registi Ozu e Oshima, alla cortina di pioggia che in A Snake of June fende innaturale il paesaggio e separa uomini e cose, eco distorta della cornice narrativa di Rashomon, di cui replica la percezione sensoriale netta e straniante. Nei film di Tsukamoto si cela l’inquietudine della normalità, l’attesa di improvvise epifanìe di quei mondi paralleli che nella serie di Ryutaro Nakamura Serial Experiments Lain offrono a uno sguardo occidentale, non contaminato dalle parodìe pret-à-porter di Murakami chez Vuitton, la percezione di un Giappone moderno alieno a se stesso e al mondo.
Shinya Tsukamoto, a snake of june
L’analisi di Tsukamoto si concentra sulla dicotomia temporale di un Paese lacerato tra il tentativo di far sopravvivere un passato sempre presente e la fascinazione degli aspetti più deviati di una marcia a ranghi serrati verso il futuro
. I suoi incubi sono gli stessi che affollano le vignette dei manga e fanno capolino tra le pagine dei migliori scrittori del Sol Levante (anche quando, come nei racconti della Yoshimoto, tutto sembra sparire dietro le volute di vapore di un saké). La sua è un’arte basata sugli estremi che si sfiorano, in senso filosofico e soprattutto fisico: pelle bianchissima e carne in putrefazione, quadri perfetti di salotti giapponesi intervallati da sequenze oniriche girate con camera a spalla. E’ su questa intelaiatura che si innestano le mutazioni genetiche, il fascino del repellente (le larve brulicanti in Soseiji), la violenza autolesionistica portata all’estremo (il frammento di metallo infilato nella carne viva, in Tetsuo: The Body Hammer).
Shinya Tsukamoto, a snake of june
La deformazione, il marchio, l’anomalia, il contagio epidemico diventano chiave interpretativa dell’esistenza
. Solo tramite uno stravolgimento totale dell’essere, che sia il corpo di un singolo (e qui il teatro kabuki si interseca con le frontiere estreme della body art, del corpo che si fa ricettacolo di vermi, di profanazioni sessuali ipertecnologiche) o le strutture fisiche e morali che legittimano l’idea stessa di umanità – solo tramite una deriva visiva e mentale si può arrivare a ripensare a un uomo nuovo, in grado di accettare la convivenza degli estremi, tradizione e futuro cyberpunk, normalità e deviazione. Una mutazione del corpo che diventa simbolo esasperato di una mutazione dell’anima, su cui l’artista (egli stesso in perenne metamorfosi, regista e attore, scrittore e scenografo, direttore della fotografia e produttore – e non a caso in A Snake of June si riserva il ruolo dell’“uomo che guarda”, e tramite l’obiettivo disseziona frammenti di realtà da imporre a sguardi attoniti che dapprima li respingono e infine in essi si riconoscono) sceglie di interrogarsi e di mettersi in gioco, senza remore e confini.


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