04 luglio 2023

Gabriele Tinti: intervista al poeta che si ispira alle opere d’arte

di

Andres Serrano, Kevin Spacey, Abel Ferrara, Roger Ballen: Gabriele Tinti racconta la sua poesia, gli artisti e gli interpreti che ne fanno parte, svelando i futuri progetti

GABRIELE TINTI, MUSEO NAZIONALE ROMANO, ROMA 2023, courtesy MadòProduction

Questa settimana Willem Dafoe leggerà i suoi testi ispirati alle epigrafi delle Terme di Diocleziano del Museo Nazionale Romano, contenuti audio che il museo distribuirà nel proprio sito. Il 18 luglio prossimo leggerà le sue poesie a New York, alla FLAG Foundation di Chelsea che ha scelto un suo verso come titolo della loro mostra sul pugilato con artisti come George Bellows, Edward Hopper, Eadweard Muybridge, Paul Pfeiffer, Ed Ruscha. Ha appena pubblicato per i tipi di ERIS, casa editrice inglese, Confessions, un lavoro a quattro mani con Andres Serrano. Dal “Pugile a riposo” conservato nella sede di Palazzo Massimo del Museo Nazionale Romano alle letture dei suoi versi da parte di Kevin Spacey e Abel Ferrara, ecco la nostra intervista esclusiva a Gabriele Tinti

Dove sei nato e dove vivi?

«Vivo dove sono cresciuto, a Senigallia, una piccola città sul mare non lontano da Jesi dove sono nato. Ho passato la mia infanzia chiuso in casa e a scuola dalle suore. Mi ammalavo spesso e soffrivo di sonnambulismo. I miei dovevano rincorrermi di notte per evitare problemi».

Dove vorresti essere nato e dove vorresti vivere?

«Non mi penso altrove rispetto a dove sono nato e dove vivo. Quando ho bisogno della città vado».

Quando hai capito che ti interessava la poesia?

«Fin da piccolo l’unica fede che ho provato è stata nella parola scritta, nella sua violenza, nel suo potere».

The Earth will Come to Laugh and to Feast, cover, courtesy Powerhouse Books, NY

Quali sono le fonti, gli autori, i libri che ti hanno accompagnato nel tuo percorso? Quali i tuoi maestri?

«I frammenti di Archiloco, Anacreonte; i poeti russi Esenin, Blok, Majakóvskij e poi Paul Celan, Gottfried Benn, il mio conterraneo Scipione, tutto il mondo epigrafico antico».

Qual è la tua definizione di poeta?

«Posso provare a darti quella della poesia: atto di resistenza nei confronti della morte. È così per tutti noi occidentali che deriviamo il nostro modo di stare al mondo dallo spirito agonistico dei greci e dei romani, dal considerare l’esistenza come battaglia in una terra straniera (cit. Marc’Aurelio), il nostro stesso corpo e mente come campo di scontro di forze che ci trascendono e che ci finiranno. Ogni nostra parola è il frutto dell’ambizione di immortalità, di sconfiggere la morte».

Qual è la tua giornata tipo?

«Mi alzo alle sei di mattina e comincio subito a scrivere prima di andare a lavorare con i disabili. Tornato a casa mi cucino il pranzo e poi, se riesco, torno a scrivere. La sera leggo. Vado a letto presto».

Hai dei riti particolari quando lavori?

«Mi circondo di tutte le parole del passato, dei poeti che mi hanno preceduto. Il computer dove scrivo è sempre sommerso delle loro opere. Il rischio è di sentirsi sopraffatti. Ma se si ha coraggio, forse uscirà qualcosa di buono».

Gabriele Tinti, cover Serrano

C’è uno spazio per l’imprevisto nel tuo lavoro?

«Quando scrivi non sai mai dove andrai a finire. La poesia nasce dal deposito dell’esistenza di ognuno di noi. Più quel deposito è fondo, più ha avuto modo di sedimentarsi, più il poeta avrà materiale sul quale lavorare, da destare, comporre, dare forma».

Dove e quando nasce il tuo interesse a comporre poesie per opere d’arte visive?

«L’intera mia serie di scrittura ecfrastica è nata di fronte al “Pugile a riposo” conservato nella sede di Palazzo Massimo del Museo Nazionale Romano e  dal mio interesse per la figura dei pugili che – con la loro volontà di tragedia – ci conducono all’unica riflessione che conti: quella sulla morte».

La tua è una scrittura ecfrastica. Possiamo dire che è scrittura delle immagini?

«Non esattamente. Le immagini entrano nella scrittura alternativamente come riferimento diretto, come evocazione ma anche semplicemente come “quinte” di un monologo, di un closet drama, di una scrittura cioè non destinata alla messa in scena ma alla lettura – antispettacolare – di un unico lettore».

Qual è il lavoro che trovi più rappresentativo a oggi del tuo percorso?

«È sempre l’ultimo. In questo caso, “Sanguinamenti” edito da La Nave di Teseo (Milano) ora in uscita negli Stati Uniti per Contra Mundum Press (New York). È il volume che più mi rappresenta. Ma se per “lavoro” intendi anche le letture, allora devo andare un poco indietro negli anni, al 2019, a quella di Kevin Spacey. Ciò che abbiamo fatto insieme è stato qualcosa di speciale proprio perché lui incarnava – incarna tutt’ora nel mondo dello spettacolo –  la figura del capro espiatorio. La mia scrittura è dramma e, come tu sai bene, una delle interpretazioni del termine tragedia è proprio quella di “canto per un capro”, per una vittima, canto della violenza dei rapporti umani. Questa mobilitazione conformista contro Spacey che, in fondo, come direbbe René Girard, è la “vittima in un fenomeno di contagio mimetico” non è una novità. Il fatto che abbia letto proprio lui che sta vivendo questa situazione il mio “Pugile”, è stato emozionante. Si è realizzata una profonda coincidenza tra vita e poesia».

Qual è l’opera d’arte che ti ha segnato di più e perché?

«Proprio “Il Pugilatore a riposo”. Rappresentato dall’artista nell’atto di volgere il capo nel mentre qualcosa di cruciale sta accadendo –  καιρός – il pugile è seduto, fortemente segnato da ferite profonde e da un copioso sanguinamento su tutto il lato destro del corpo. Non sappiamo con certezza che cosa significhi quel volgersi del capo. Le numerose controversie scaturite nel tentativo di spiegare quel gesto ha fondato tutto il mistero e la poesia, tutta la seduzione, dell’opera».

Kevin Spacey legge Il Pugile di Gabriele Tinti, Museo -nazionale Romano, 2019, courtesy Mauro Maglione

Quali artisti contemporanei che hai personalmente conosciuto sono stati importanti nel tuo percorso? E perché?

«Andres Serrano, Abel Ferrara e Roger Ballen. Sono legato a tutti e tre per la medesima ragione: la generosità e la stima che fin dall’inizio hanno mostrato nei confronti della mia poesia. È così importante ricevere apprezzamento e supporto da artisti di generazioni precedenti tanto più se a farlo sono coloro che hai sempre ammirato».

Hai intessuto una collaborazione con il regista e attore Abel Ferrara. Come è nata?

«Abel è il mio lettore ideale. Riesce a dare voce ai miei versi nel modo più diretto, semplice, autentico possibile. Al di là di ogni velleità interpretativa. L’ho contattato anni fa mandandogli le mie poesie. Gli sono piaciute molto. Siamo partiti da lì e dal nostro primo incontro a Roma. È generoso e disponibile a far entrare la creatività altrui nel proprio lavoro. Ad esempio, in Zeros and Ones – girato durante la pandemia – fece leggere a Ethan Hawke alcuni miei versi che poi inserì nel film. Versi che lui stesso aveva amato e letto a Brera, di fronte al “Cristo alla colonna”. È istruttivo vederlo all’opera. La sua gioia creativa è contagiosa e trascende l’età».

Con quali altri attori hai una consuetudine di collaborazioni?

«Con l’amico Alessandro Haber. Possono passare mesi o anni, ma è questa una collaborazione che periodicamente ritorna proprio per l’affetto che proviamo l’uno per l’altro».

A tuo avviso, qual è lo stato della poesia in Italia?

«Tutti qui in Italia scrivono, discutono nei social e pubblicano poesia. Quindi mi pare ci sia sempre un certo fermento. Il problema ogni volta è: che cosa viene scritto e che cosa viene davvero letto e discusso?».

La poesia o la raccolta di poesie di un tuo collega contemporaneo che avresti voluto scrivere tu?

«Non saprei. Seguo pochissima poesia contemporanea. Il mio sguardo è rivolto all’indietro. Ci sono così tanti autori da leggere che non basterebbe una vita! Quando pensi di conoscere tutto nel campo di ciò che ti interessa, la tua lettura del momento ti sorprende e ti apre nuove prospettive. Pensa che soltanto recentemente ho scoperto autori per me incredibili come Gregorio di Nazianzo e Francois Villon!».

Quale ritieni che sia il tuo più grande limite?

«Il più grande credo sia l’essere costantemente in ansia e in panico. Tutta questa vita che ho che vuole vivere in controllo non riuscendoci mai. Se non fossi così, però, sarei qualcosa d’altro. È un limite nella vita ma, allo stesso tempo, una forza generatrice».

Confessions cover limited edition, courtesy Eris Press, London

Hai appena pubblicato per i tipi di ERIS, casa editrice inglese, Confessions, un lavoro a quattro mani con Andres Serrano. Di cosa si tratta?

«“Confessions” è un volume attraverso il quale – combinando le parole e le immagini – abbiamo cercato di esprimere una confessio vitae, il dramma proprio d’ogni uomo quando si trova separato dal divino, quando è continuamente spinto tra speranza e disperazione, illusione e delusione. Entrambi siamo cresciuti in famiglie cattoliche, parte di una cultura che concepisce il “vedere” come risultato del “ferire”, la manifestazione dell’alterità come frutto della violenza del sensibile, del corporale. Il libro è il risultato di tutto questo».

Progetti futuri?

«Ho talmente tanti progetti in essere e in mente che devo costantemente lavorare su me stesso per concentrarmi su quelli concretamente realizzabili e lasciar perdere tutto il resto. Sogno sempre l’ennesima impresa. Eliot diceva che ogni poesia è “una vivente unità di tutte le poesie che sono state scritte”, è un accumulo, un corpo a corpo continuo con gli antenati. È la bellezza di questa sfida che mi tiene in piedi ogni giorno».

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