25 marzo 2020

Gli occhi tristi e poi i capelli blu: l’icona senza tempo di Lucia Bosè

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Ricordiamo la vita e la carriera di Lucia Bosè attraversando alcune delle sue magistrali interpretazioni, che trasformarono una donna elegante in un’icona senza tempo

Quel volto perfettamente angolato, gli occhi tristi e languidi e fieri, il fisico slanciato ed elegante: Lucia Bosè era dotata di una fotogenia che andava ben oltre le cronache mondane. La sua immagine degli esordi sembra un vero e proprio sinonimo della modernità a cui l’Italia faticosamente si affacciava in quegli anni tra la guerra e il boom. Una modernità cosmopolita, come la Milano dove era nata e cresciuta, e dove fu scoperta secondo modalità ormai entrate nella leggenda. Un episodio che ricorda la maniera in cui fu scovata Lana Turner: l’americana beveva una Coca-Cola su Sunset Boulevard, Lucia Bosè lavorava come commessa in una pasticceria, quando Luchino Visconti intravide in lei il lucore della stella. E come Lana, anche Lucia ha incarnato la diva perfetta, l’idea iperuranica della star.

L’edizione di Miss Italia vinta a soli 16 anni è passata alla storia per le tante bellezze mozzafiato partecipanti: Gina Lollobrigida, Silvana Mangano, Gianna Maria Canale, Eleonora Rossi Drago, tutte destinate a brillanti carriere nel cinema. Era il 1947 e l’Italia era ancora tra le macerie. Fa impressione pensarci ora, che a portarsela via è stato il Coronavirus, nella patria elettiva spagnola. Il Presidente del Repubblica ci invita a ritrovare l’unità del dopoguerra e la scomparsa di questa icona è un’occasione tanto triste quanto imperdibile per ricordare la grandezza sua e di quella stagione del cinema italiano.

Di Lucia Bosè rimarrà impressa nella memoria la presenza insostituibile in Cronaca di un amore di Michelangelo Antonioni (1950): la sua è una dark lady italiana perfettamente sospesa tra egoismo, indolenza e spleen, rielaborazione originale dei modelli americani del tutto in sintonia col lavoro di destrutturazione abulica del noir operata dal regista ferrarese. Ancora, il suo sguardo straniato ben si sposa alla regia per l’appunto brechtiana, volutamente asimmetrica e forse già postmoderna di Giuseppe De Santis in Non c’è pace tra gli ulivi (1950). Ma Lucia Bosè ha saputo anche essere interprete più classicamente empatica, efficace con la sua gioventù acerba e spontanea sia nel registro drammatico di Roma ore 11 (De Santis, 1952) che in una delle commedie simbolo degli anni Cinquanta, Le ragazze di Piazza di Spagna (Luciano Emmer, 1952).

La sua interpretazione più grande è però probabilmente quella offerta in La signora senza camelie (1953), nuovamente diretta da Antonioni. Il film è uno dei ritratti del mondo dello spettacolo e della cultura della celebrità più feroci di tutta la storia del cinema, non solo italiano. E la prova di Lucia rende palese l’inadeguatezza delle categorie semplicistiche con cui spesso si discutono le interpretazioni divistiche: Lucia Bosè è Clara Manni, non recita semplicemente la parte ma abita il personaggio, costruendo un ritratto profondo, che deve molto alle volute coincidenze biografiche ed al carisma innato, ma va anche oltre, in una perfetta corrispondenza melodrammatica tra l’espressività del suo volto e del suo corpo e la visione del mondo proposta dal film. Come e più di Lana Turner nel Bruto e la bella di Minnelli, altra parabola crudele sullo star system, Lucia Bosè è al suo meglio quando può incarnare la lotta per l’emancipazione di una soggettività femminile ingabbiata nella dimensione della performance.

La prima fase della carriera di si conclude presto, dopo un altro ruolo indimenticabile negli Sbandati di Citto Maselli (1955), a seguito del matrimonio col torero Luis Dominguìn (da cui nascerà il figlio Miguel, celebre cantante e attore che adotta il cognome materno). L’anno del ritiro dalle scene è il 1956, lo stesso in cui anche Grace Kelly abbandona la ribalta. Ma a differenza della principessa di Filadelfia, Lucia tornerà più volte al cinema, lavorando con Cocteau, con Fellini per il Satyricon (1969), con i fratelli Taviani per Sotto il segno dello scorpione (1969).

Forse il suo miglior ruolo in questa seconda fase è quello di Viola in Metello (Mauro Bolognini, 1970): la sua presenza, distinta ma al contempo più terrena e franca che in gioventù, dà reale spessore al personaggio e al film nel suo complesso, arricchendo di una dimensione affettiva la dinamica del desiderio tra la signora borghese e il giovane sottoproletario interpretato da Massimo Ranieri. E ancora sarà attrice, tra gli altri, per Rosi (Cronaca di una morte annunciata, 1987) e per Ozpetek (Harem Suare, 1999), prima delle Grandi Dame del cinema italiano mobilitate dall’attento cineasta di origine turca. La sua zazzera blu degli ultimi anni, assai autoironica, ci lascia l’ulteriore impressione di una diva indimenticabile.

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