23 aprile 2020

Idee per il futuro #2. Parlano gli artisti: Flavio Favelli

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Una nuova rubrica per dare la parola agli artisti e immaginare, insieme, nuove idee per il futuro, dopo il Covid-19: oggi leggiamo Flavio Favelli

Flavio Favelli
Flavio Favelli

Idee per il futuro è la nuova rubrica di exibart, per dare la parola agli artisti e immaginare, insieme, nuove idee per il futuro, oltre che per provare a capire come realizzarlo, dopo l’emergenza Covid-19: l’appuntamento di oggi è con Flavio Favelli.

La biografia di Flavio Favelli

Flavio Favelli (Firenze, 1967), dopo la Laurea in Storia Orientale all’Università di Bologna, prende parte al Link Project (1995-2001).

Ha esposto con progetti personali al MAXXI di Roma, al Centro per l’Arte Pecci di Prato, alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, alla Maison Rouge di Parigi e al 176 Projectspace di Londra. Partecipa alla mostra Italics a Palazzo Grassi nel 2008 e a due Biennali di Venezia: la 50° (Clandestini, a cura di F. Bonami) e la 55° (Padiglione Italia a cura di B. Pietromarchi). Nel 2008 realizza Sala d’Attesa ambiente permanente nel Cimitero Monumentale della Certosa di Bologna che accoglie la celebrazione di funerali laici. Nel 2015 l’opera Gli Angeli degli Eroi viene scelta dal Quirinale per commemorare i militari caduti nella ricorrenza del 4 Novembre.

Nel 2017 il progetto Serie Imperiale vince la seconda edizione del bando Italian Council. Nel 2019 ha una mostra personale a Ca’ Rezzonico, uno dei musei della Fondazione Musei Civici a Venezia, ed esce libro d’artista Bologna la Rossa edito da Corraini Edizioni. Scrive per La Repubblica edizione di Bologna dal 2014.

La parola agli artisti

Tre cose che chiederesti per far fronte al futuro, come professionista dell’arte (Denaro? Possibilità di esporre? Studio gratuito? Minori imposte sulla Partita Iva? Abbassamento dell’IVA per chi decide di investire in arte? Creazione di un sindacato?…)
«Darei questa possibilità: facendo la somma del reddito degli ultimi 3 anni dell’artista, si calcola la media mensile e si divide per due. La cifra che risulta sarebbe lo stipendio mensile che lo Stato dovrebbe all’artista. Senza tasse. Dopo un anno, se l’artista ha venduto di meno della cifra annuale percepita dallo Stato è tutelato, se ha venduto di più, il resto andrà allo Stato. Ogni anno si rivedrà il parametro. Io sarei pronto, vorrei vedere chi ci sta. Perché se si chiedono soldi poi il problema è: a chi vanno? Tutti diventerebbero artisti, scenografi, creativi, e in questo momento populista molti direbbero E perché? A chi? A quelli che fanno la banana o il taglio sulla tela? Nel caso che ipotizzo si verrebbe ad un patto: una reciproca relazione con l’istituzione con cui vorrei avere degli scambi, come l’Italian Council. Con questa proposta/patto vorrei essere preso in considerazione, vorrei, più che essere tutelato, un riconoscimento che lo Stato dovrebbe darmi e altre iniziative (come la possibilità di partecipare a incontri con le amministrazioni). Credo che vada riconosciuto in qualche modo il lavoro dell’artista che mi sembra, -certo bisognerà fare delle distinzioni-, l’unico attore capace di creare senza uno studio di mercato, senza una previsione, senza un piano prestabilito. Anni fa ho esposto una grande opera, dopo mesi di lavoro, in un capannone in disuso vicino a casa sull’Appennino Bolognese. Feci una specie di inaugurazione, dove nel grande spazio di circa 300 metriquadrati si trovava l’opera. Un imprenditore mi disse: e tu tieni questo grande spazio solo per esporre un’opera?».

Flavio Favelli, Il bello inverso, Ca' Rezzonico, Venezia 2019
Flavio Favelli, Il bello inverso, Ca’ Rezzonico, Venezia 2019

Ci puoi dire un motivo per cui, secondo te, ancora oggi in Italia si fatica a riconoscere i diritti degli artisti come categoria professionale?
«Giorni fa l’assessore alla cultura di Bologna ha detto che in Italia il lavoro culturale non viene riconosciuto. Già questa è una risposta. Figuriamoci gli artisti. Anni fa avevo scritto questo testo per fare capire la situazione: ci sono tanti fattori. Colpa anche degli artisti stessi. La faccenda è molto seria, certo non è semplice rifiutare possibilità di guadagno, ma si fanno troppe cose a carattere illustrativo e commerciale e questo alla fine pesa. Io stesso mi sono amaramente pentito di un progetto per un gadget di tanti anni fa, cosa che non rifarei. Gli artisti stessi accettano sempre usi e costumi che non fanno altro che mantenere un’idea ferma di un mondo spesso percepito, nonostante tutto, come noioso (ma chi va più alle presentazione dei libri e cataloghi d’arte?) Al The First Morning Fest of Unreasonable Acts nel 2018 a Bologna a cura di Antonio Grulli e Keren Cytter io e Luca Bertolo facemmo una discussione pubblica senza alcun mediatore. Mi sembra che sia stata una cosa unica nel suo genere. Di solito l’artista, se mai parla, viene sempre scortato e moderato dal curatore che appunto lo cura perché evidentemente va curato. D’altra parte gli artisti parlano poco, leggono poco, scrivono poco e, avrebbe detto mia nonna, non sanno nemmeno stare zitti, perché anche quello a volte è importante. L’artista non esprimendo nessun pensiero e presa di posizione (faccio un esempio: in passato non ho accettato di partecipare a due progetti legati alla Chiesa, per il semplice motivo che in quell’ambiente l’opera viene sempre letta in modo univoco e l’artista sembra sempre un messaggero, anche se non se ne rende conto, della bellezza del creato) verrà sempre visto come colui che si accontenta del rapporto che gli offre la società, cioè solo commerciale e questo necessario mezzo, se si tramuta in solo scopo, non può essere altro che scontato; ed è così, in fondo, che l’arte contemporanea viene percepita: come una mera faccenda di mercato. Il problema è che raggiungendo il successo commerciale automaticamente si raggiunge la fama (chi fa soldi è sempre importante) e quindi si entra di diritto nel pantheon degli artisti illustri che, a loro volta, per mantenere tale popolarità, non possono fare altro che ripetere il loro stile, per renderlo riconoscibile, come una firma di successo. Mi sembra che il recente esempio del Tricolore di cartone, plastificato, l’opera d’arte commissionata ad un artista famoso e regalata ai lettori del Corriere della Sera, in pieno periodo di virus a corona, vada in questa direzione».

Parliamo dei danni, oltre a quelli morali. A che progetti stavi lavorando prima di questo isolamento, ma soprattutto prevedi che si concretizzeranno o dovranno essere abbandonati?
«Mah, tante cose, il punto è che fuori dal mondo dell’arte, il rapporto con aziende ed enti pubblici sarà sicuramente difficile da riprendere. Già prima era arduo, figuriamoci ora, non vedranno l’ora di dire … non è il momento, ora ci sono cose più urgenti».

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