08 luglio 2010

IL POETA NELL’ETÀ DELLA GUERRA

 
di marcello faletra

Questa intervista a Edoardo Sanguineti è stata realizzata a Palermo in occasione dei quarant’anni del Gruppo 63. A distanza di cinque rocamboleschi anni, i temi affrontati non hanno perso nulla della loro bruciante attualità. La questione scottante era la costruzione di un presente alternativo a quello mistificatorio e oscurantista che sta segnando la vita politica e culturale del nostro paese e non solo...

di

Inizierei subito domandandole: che cos’è un
poeta oggi?

Credo che per certi riguardi si ponga lo
stesso problema che si è posto sempre almeno nel mondo moderno e in largo
senso, cioè un lavoro che muove da iniziativa personale e che può avere le
ragioni psicologiche più diverse, oltre che di stimoli sociali sempre notevoli
che variano nel tempo e socialmente e cioè un bisogno, dico molto genericamente
di comunicazione. A me piace esprimere questa cosa in questi termini, cioè ci
sono due modi di porsi il problema: o si considera che c’è un poeta che è poeta
e in quanto poeta, per sua natura, indole produce poesie perché ha una natura
acquisita o naturale poetica, o viceversa qualcuno che propone dei testi
poetici e poi questi trovano un consenso sociale che può essere molto limitato,
può essere clamorosamente risonante, può avere alti e bassi durante la propria
esistenza.

Io sono di questa seconda opinione: cioè si è
poeti quando la comunicazione giunge a un committente (?) che una volta poteva
essere quello di una corte, di una autorità, di una società ristretta,
aristocratica, un’accademia. Nella storia, come dire, gli strumenti di
collocazione, i committenti più o meno espliciti evidentemente sono stati molto
diversi. Se questa risposta esiste, allora si è poeti. Ma non perché ci sia qualche
punto di partenza a priori che non sia il generico bisogno, che tutti abbiamo,
di comunicare che può assumere questa forma, chi sperimenta questo tipo può
trovare una risposta o no.

Edoardo Sanguineti - courtesy FotoGrafia Festival, Roma
Nel mondo moderno, in senso più stretto, nel
mondo dell’età borghese ci si trova di fronte non più a dei committenti
espliciti o a dei controlli culturali come può essere una società letteraria
del tipo l’Arcadia, ma di fronte a quell’ente molto indeterminato che è il
pubblico e che alla fin fine si concreta nell’acquirente dell’opera. Questo
vale per il quadro come per la musica, che non nasce più da una committenza
netta, se non per quel tanto che sopravvive in contraddizione… Ci può essere
una società concertistica, un teatro che propone un’opera. Però il fatto che
questa possa trovare o no consenso onorevole dipende da un pubblico pagante
indeterminato, è una condizione, come si dice, di merce. Mi sembra che questa
sia l’origine del fenomeno.

È uno scenario cinico…
Sì, necessariamente. Trovo la parola ‘cinico’
positiva, nel senso che la si può identificare col realismo. Se cerco di
guardare la realtà così come essa è in quel che sono le sue strutture
essenziali, lo sguardo può apparire evidentemente molto freddo, ma credo che
sia una partenza necessaria e che sia inutile o pericoloso travestire in
maniera diversa quelli che sono meccanismi oggettivamente prevalenti e a loro
modo assolutamente condizionanti.
Naturalmente uno può passare la propria vita a
scrivere versi e questi agire poi a distanza di molto tempo, nel senso che un
vecchio che ha esaurito la propria carriera, spesse volte è defunto, e qui
entrano elementi anche fortuiti, di buona sorte, se l’opera si salva. Allo
stesso modo qualcuno che avuto un grande consenso iniziale può essere
dimenticato o per sempre o per lunghissimi spazi di tempo. Le fortune sono
molto varie.

Antonin Artaud - Autoritratto - 1947 - matita e gessetti colorati su carta - cm 55x43 - coll. privataForse ciò deriva anche da quanto lei
osservava relativamente alla poesia della crudeltà, cioè questa dimensione in
cui il pubblico diventa in qualche modo il secondo attore, se non il principale,
rispetto alla poesia e alle arti in genere. Voglio dire che questa dimensione
della crudeltà significa anche un modo di mettere in gioco un’autonomia
rispetto a chi produce un testo?

Io mi rifacevo ad Artaud e al teatro della
crudeltà, una necessità – come diceva Artaud – di rigore e di una produzione
che risponda in qualche modo alle necessità, paragonabili alle necessità più
elementari dell’esistenza. Perché, certamente, se il bisogno comunicativo per
un essere sociale come l’uomo è primario, questo spiega anche perché si
producano tante forme comunicative che possono andare dalla semplice
conversazione, dal dialogo della vita quotidiana fino ai prodotti più rarefatti
e culturalmente caratterizzati. Io credo nella possibilità di poter produrre
dei testi che abbiano un forte valore alternativo e contestativo rispetto a
quelle che sono le idee dominanti; ma qui non è più un terreno di constatazione
dei meccanismi che reggono, ma di propositi di poetica.

Oggi si parla molto di questa dimensione
del pensiero unico e di come vi sia in atto un becero revisionismo nei
confronti della storia. E ciò produce anche nella conoscenza che non è
addestrata alle trappole del revisionismo uno stato confusionale, un vuoto
etico della conoscenza. Rispetto a questo scenario il poeta ha ancora l’obbligo
di comunicare… cosa? L’esercizio poetico in quanto tale oppure cos’altro? la
parola resistenza od opposizione rientra nelle sue preoccupazioni?

Credo che siano la stessa cosa, almeno se si
vuol tener fede a una certa poetica che è una poetica di ordine critico, per
cui l’intellettuale, ed è bene che il poeta si senta intellettuale, è un
responsabile comunicatore di ideologia. A meno che il poeta ritenga che il
mondo vada bene com’è, per cui ritiene impossibile pensare a qualsiasi
alterazione di questo stesso mondo. Allora in questo caso si ritiene che “la
storia è finita”, come affermano i teorici del neo-conservativismo americano,
che hanno cercato di diffondere quest’idea ovunque; ormai il capitalismo ha
vinto e non si può andare oltre. E allora se si accetta questo si capisce non
c’è da fare un’apologia diretta di tutto questo: le ideologie sono morte e
tutto significa tutto, ovvero niente, non c’è che il trionfo della merce e
della violenza capitalistica, di guerre preventive che devono tutelare la
natura delle cose, insomma dell’imperialismo di Bush…
Bin Laden
Oppure si pensa che la storia non è finita che
siamo anche a un livello di proletarizzazione che non si è mai conosciuto, che
lo sfruttamento ha raggiunto con la globalizzazione compiuta livelli
assolutamente planetari, e a questo punto bisogna mobilitarsi e davvero cercare
di resistere, opponendo una visione critica; allora a questo punto
l’intellettuale riacquista delle possibilità che non sono quelle decorative, ma
ripropone delle scelte che sono prima di tutto di ordine politico e sociale, e
cioè: o sto dalla parte dello sfruttamento capitalistico e dell’élite di potere
mostruosamente armata, oppure mi schiero dall’altra parte, convinto che la
storia non è finita, anzi, per così dire, adesso viene il bello, sia pure un
bello orrendo perché il capitalismo una volta diventato davvero planetario
nella compiutezza della sua espansione non è più in grado di governare il
mondo.
Quello che è impressionate nei Bush come nei Berlusconi
in grande o nella sua parodia è questa incapacità di comprendere le cose, di
governare le cose, per cui non sanno davvero più come affrontare non solo i
piani economici – non c’è più un economista che ne azzecchi una e che sappia
consigliare… È tutta una grande roulette che si sta svolgendo sotto gli
occhi di tutti, ma insomma, si fa la guerra all’Iraq per scoprire che poi
questa guerra è assolutamente irrisolubile, impraticabile, non riesce a
rispondere più a nessuna delle pseudo-ragioni – perchè poi le motivazioni con
cui si è mossa questa guerra erano assolutamente false e fabbricate, non
c’erano le armi di distruzione di massa vantate, dunque c’è nessuna
motivazione. L'attacco alle Twin TowersMa la cosa più impressionante è questa: la vecchia Cia o l’Fbi una
volta avrebbero portato lì le armi, le avrebbe messe in qualche luogo opportuno
e poi avrebbero gridato alla scoperta; hanno fatto così, hanno ammazzato
presidenti, rovesciato governi, han fatto tutto quello che potevano per gestire
il mondo e ci riuscivano. Ci riuscivano perché riuscivano a gestire il Cile
come la Colombia in una maniera che era orrenda ma egemone.
Qui è rimasto l’orrore ma la capacità invece
di gestire il mondo non sussiste più, e allora si possono trovare dei complici
altrettanto incapaci di capire le cose come Blair, come Aznar o il nostro
povero Berlusconi, pronti solo a una guerra preventiva, totalmente arbitraria e
mossa da deliri; con l’idea totalmente fantastica di aver di fronte dei poveri
terroristi fanatici quando hanno invece un uomo come Bin Laden, che è uno dei
più ricchi capitalisti del mondo, tecnologicamente preparatissimo, tanto da
riuscire a buttar giù due grattacieli, il che non è fatto da fanatici
impreparati ma anzi da gente che sa benissimo gestire le tecnologie più raffinate.

Come dice Baudrillard, “loro l’hanno
fatto, ma l’Occidente se l’è cercato
?
Sì, la violenza con cui il capitalismo si è
impadronito del mondo ha suscitato delle reazioni, ma la lotta al momento
attuale non è affatto una lotta fra capitalisti e proletari; i proletari al
momento sono inconsapevoli, passano per essere i poveri della terra e la
categoria povero è una categoria che risponde a modi diversi da quelli di un
materialista storico. La povertà è un fenomeno ma non coincide necessariamente
con la condizione del proletario. C’è un proletariato totalmente inconsapevole
di sé, quindi non in grado al momento di organizzare una risposta adeguata.
Quello che esiste è la lotta fra due forme di
capitalismo: un capitalismo, quello più legato alla tradizione classica e che
trova incarnazione nel modello americano, e un altro capitalismo di ordine più
spregiudicatamente finanziario, che è quello rappresentato da Bin Laden. Bin
Laden non è un rappresentante di proletari che possa utilizzare dei poveri,
trova un perfetto equivalente nei volontari dell’esercito americano che sono
dei sottoproletari americani che si fanno volontari per sopravvivere,
esattamente come i carabinieri nostri che sono andati là perché hanno dei
contratti che permettono loro di sfuggire alla disoccupazione, di dare un po’
di soldi a casa, ma quello è appunto un esercito in qualche modo mercenario,
come sempre più si configura una volta che si abbandoni il principio della
grande tradizione democratica borghese, che per lo meno pensava all’esercito
come espressione della nazione, come un dovere…
Oramai l’esercito è diventato un esercito di
mercenari tecnologi raccattati però nelle fasce più povere della società. Come
una volta il povero contadino, settimo figlio di una famiglia, doveva fare o il
prete o il carabiniere…

Georges BatailleC’è ancora, da qualche parte, un’eredità
delle avanguardie? Breton, Bataille, seppure in forme differenti se non opposte,
hanno coniugato arte, esperienza di pensiero e politica, e questa coniugazione
avveniva soprattutto in tempi di totalitarismo cruento, quindi con un forte
rischio personale, come è accaduto a molti intellettuali soprattutto in Italia (Gramsci,
Pavese e altri). Oggi invece sembra sussistere un’anestesia generale,
un’indifferenza allarmante, un senso di passività che rende le cose ancora più
facili per i revisionisti e il neofascismo mediatico…

Credo che Breton abbia avuto il grande merito
di costituire un movimento che prima di tutto cercava di uscire dall’estetica.
Il momento migliore è quando il programma non è affatto di creare di opere
letterarie o d’arte, ma cercare di decifrare i comportamenti della psiche
umana. Quando il Surrealismo proclamava inizialmente le libere associazioni, il
delirio coltivato, il dar voce liberissima all’inconscio, era molto più
interessato al funzionamento della psiche che non a risultati d’arte. Poi a
mano a mano questo nucleo iniziale nei manifesti si è trasformato in prodotto
estetico, e in questo le arti figurative giocano un ruolo essenziale, perché il
gioco letterale, chiamiamolo così, poteva ancora essere in qualche modo
sottratto a questa trasformazione…
Se faccio quadri è molto più difficile. Il
quadro si presenta subito come un oggetto che vuole un mercato ed è chiaro che
fare un quadro che non si presenti come opera d’arte è molto più precario: o
faccio le tavole di Rorschach o cose evidentemente orientate come test o come
pure proiezioni dell’inconscio, oppure a un certo punto io utilizzo l’inconscio
a fini estetici. Però c’è il grande merito di aver fatto i conti precisamente
con Freud come con Marx, o almeno di aver tentato di farli. Il momento del
Surrealismo al servizio della rivoluzione, il momento in cui sia pure col
dissenso evidente di Freud si cerca di praticare l’inconscio, vuol dire tentare
di fare i conti con i due momenti culturali più rilevanti che si potevano avere
nella prima metà del Novecento e che non sono affatto superati.
Quanto alla posizione di Bataille, è una
posizione per molti aspetti più ricca di fascino, ma anche meno, credo,
politicamente significativa.
Marx non ha mai pensato che necessariamente il
proletariato avrebbe costituito la nuova società: il proletariato poteva essere
sconfitto. Quando due classi, scrive Marx, sono in conflitto per l’egemonia, o
l’una cade o cade l’altra o cadono tutte e due. Credo che la probabilità più
alta che noi viviamo nei nostri giorni è il crollo di entrambe, e cioè che il
mondo proletario – un proletariato che non sa di essere tale come l’intero
continente africano, gran parte dell’India, la Cina forse sta tentando la via
più spietata ma anche più avveduta di salvezza, ma tutto questo avviene
all’interno di una condizione atomica, siamo seduti sopra mucchi di armi a
portata di tutti, ormai è commerciabilissima – beh la cosa più probabile è
veramente che siamo alla fine della storia umana.
Edoardo Sanguineti
Mi auguro che questa condizione, che ha un
altissimo grado di probabilità, venga superata, ma temo che la vecchia talpa
abbia poche probabilità di uno scavo razionale, in parte perché quando
continenti interi sono ridotti in condizioni subumane – il caso africano è il
più evidente, l’America Latina non sta allegra, le condizioni di dominio
mafioso in Unione Sovietica sono catastrofiche, i casi della Cecenia sono del
tutto paralleli a quello che può capitare in Afghanistan e in altre parti del
mondo – il rischio è fortissimo.
Credo la talpa di Bataille non riesca a
scavare altro che una fossa, ma si fa quel che si può fino all’ultimo.

Alcune sue prese di posizione provocano
fastidio, forse perché coniuga poesie e impegno civile e in ogni caso perché,
comunque, legge i fenomeni artistici sempre connessi o immessi direttamente in
una dimensione che è sociale e politica a un tempo. Probabilmente è questo che
da fastidio ad alcuni critici arruolati nelle liste del revisionismo o che
provoca irritazione negli ambienti letterari accademici…

Sì, credo che questo effettivamente conti.
Credo che il significato forte delle avanguardie sia in generale quello di
avere precisamente dei programmi, che non vuol dire avere dei programmi
estetici o non soltanto estetici, vuol dire cercare di radicarli in una visione
del mondo e assumerne una responsabilità come intellettuale.
Io parto dall’idea che qualunque comunicatore
ha un ruolo intellettuale perché comunica una sua visione del mondo; ma questo
anche nella vita quotidiana: quando due persone chiacchierano della bontà di un
cibo, stanno dialogando di una filosofia universale, perché dietro il più
elementare comportamento sta una visione del mondo. Io ricordo sempre
volentieri che se noi giudichiamo molto buoni i vini francesi è perché la
Francia ha avuto un’egemonia culturale, economica e militare dopo la
Rivoluzione Francese, tale da imporre all’Europa che il Bordeaux è una cosa
eccellente, che il Cognac è il liquore migliore del mondo, dopodiché il mondo
angloamericano ha contrapposto il whisky e oggi persino la Coca Cola, e quando
si dice “ah! la Coca Cola o il McDonald’s
” è una lotta che solo apparentemente è
di tipo economico. I no global, il rifiuto del logo pubblicitario, in realtà
sono guerre economiche, perché se si paga la Coca Cola si modifica veramente
l’economia di una nazione, di gruppi consistenti.
Edoardo Sanguineti
Se è vero che se si comunicano sempre messaggi
ideologici, la condizione più ricercabile deve essere quella di cercare di
capire il più possibile in che mondo siamo, come accadono le cose, che messaggi
si contrappongono e che cosa sia più efficace volendo tutelare una possibilità
di esistenza umana come prospettata, sia pure sempre con molta cautela, per via
di negazione dal messaggio del materialismo storico, insomma da una possibilità
di rivoluzione.
Chi pone i problemi in termini di pura
letteratura naturalmente è completamente estraneo a queste cose, ma non è che
sia privo di ideologia: è un intellettuale anche lui, ma reazionario. Io credo
che valga la pena di sforzarsi di essere intellettuali, progressisti, si dica
quel che si vuole… rivoluzionari e soprattutto realisti, che è forse il
compito più importante. Qualche volta e volentieri dico che in fondo della
poesia m’importa pochissimo; quello che mi importa è la politica e la poesia è
uno strumento di comunicazione ideologica. Io lo faccio sapendo di farlo e
sapendo – spero – abbastanza in che direzione mi muovo. Altri non sanno in che
direzione si muovono e, quando lo sanno, questa direzione viene fuori così
com’è, ed è una posizione di conservazione e di reazione.

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2 Commenti

  1. A proposito di POESIA e di ART-BLOG: rispondo ad uno dei vostri “perché del mese”.
    Vi segnalo TRANQUIADA, il mio blog su Venezia che è lettissimo ed è anche stato ripreso da Artmoco, un noto sito di arte e design. Poesia, musica, arte, teatro, cinema: una Venezia-vintage (+ Mestre + Marghera + isole + laguna) tra contemporaneità e memoria http://tranquiada.blogspot.com/

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