23 gennaio 2006

Il Tempo dell’Oca

 
La romana Galleria dell’Oca compie quaranta anni. Luisa Laureati, donna di carattere e di acuta intelligenza, racconta la sua storia di gallerista. Iniziata a causa della perdita di un lavoro. Un taglio che attraversa la cultura italiana –e i suoi aneddoti- a partire dagli anni ’60. Come quella volta che Toti Scialoja, impugnando una forchetta...

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La Galleria dell’Oca compie quarant’anni. Confermando il ruolo di galleria storica nel panorama romano. Cosa l’ha spinta nel lontano 1965 ad iniziare questa importante impresa professionale?
Il fatto che ero senza lavoro, e intorno a me c’erano tanti artisti che mi incoraggiavano. La mia prima esperienza è stata all’ufficio vendita della Quadriennale, poi ho lavorato alla Galleria L’Attico in Piazza di Spagna e in seguito sono stata assunta dalla Knoll International, che si occupava di mobili di design. Nel 1965 chiude la Knoll ed io rimango disoccupata. Ma è stata la vita a condurmi ad un naturale incontro con l’arte e gli artisti. Mio padre era amico di molti artisti ed io già a nove anni conoscevo Matta, Burri, Cagli, per citarne alcuni. Franco Angeli è stato il mio compagno per tre anni, ed è stato lui ad aiutarmi a scegliere la prima sede della galleria. Del resto abitavo a Piazza di Ripetta, vicino al Caffè Rosati, luogo di incontro di artisti. Il mio approccio con l’arte è stato nella strada.

Secondo quali criteri ha compiuto le sue scelte?
Per molti anni, fino al 1970, quando incontrai Giuliano Briganti, fu tutto occasionale. Le mostre scandivano le giornate e gli incontri, le conversazioni abituali accompagnavano le mie scelte professionali. Ricordo che una mostra di fumetti di Gastone Novelli si organizzò al caffè Rosati. Gastone aveva fatto un libretto.

Quale era la filosofia di base all’epoca?
Eravamo lontani da quel che accade adesso, non c’era il mercato, tutto era casuale. Io non ho mai pensato che il mercato potesse Renato Guttuso nel suo studio con Luisa Laureati condizionare l’attività dei galleristi. Nella mia lunga povertà sono sempre stata “aristocratica”. Preferisco chiudere piuttosto che fare una mostra secondo i dettami del mercato, capisco ed accetto che ce ne sia uno, ma non voglio che ciò che faccio nasca per il denaro. Ma credo che qualsiasi passione alla fine porti dei guadagni. All’inizio poi, più che una galleria, la mia era una libreria.

E dalla libreria alla galleria? Com’è successo?
La mia attività nel tempo ha avuto una naturale espansione. Nel 1974 la galleria si allarga e si struttura con una fisionomia più decisa, nel ‘78, quando vanno via i libri, si dispone su due piani; dal ‘78 fino all’83 collaboro con GianEnzo Sperone e Luciano Pistoi; con loro condivido scelte e guadagni. La scelta di trasferire la sede da via dell’Oca a via della Mercede, avvenuta nel 2003, è stata anch’essa frutto del caso. Dopo la morte di mio marito, nel 1992, insieme ai suoi figli si è deciso di liberare le stanze dai libri che costituivano l’imponente biblioteca, che è stata venduta con la sponsorizzazione del Monte di Paschi. Ancora una volta sono stati i miei amici artisti ad incoraggiarmi ad utilizzare questi spazi a cui erano legati affettivamente.

La figura di suo marito, Giuliano Briganti, insigne storico dell’arte, è stata un punto di riferimento…
Fondamentale. Con lui iniziai a studiare storia dell’arte, ma una parte importante della mia formazione è dovuta agli artisti.

Quali ricorda con maggiore trasporto?
Tra gli artisti viventi Giulio Paolini, nel passato Novelli e Matta. Gastone Novelli era un amico e mi ha insegnato molte cose, Matta invece è stato il filo della mia esistenza da quando avevo nove anni e gli sono stata vicina finché è morto. L’amicizia con Giulio Paolini è per me molto importante. È fatta di lunghe chiacchierate, di lettere mai interrotte, un rapporto basato su una forte empatia.
Giulio Paolini mentre allestisce l
Ma la Galleria dell’Oca è stata anche il crocevia di scambi culturali di ben più ampia portata. Ci parli del clima culturale degli anni 60 e 70…
Lo scambio con gli intellettuali era molto semplice, ci si incontrava sempre. C’era anche un interesse politico comune, che si espresse in alcune mostre. Ci occupammo con grande dedizione dei fuoriusciti greci, creando dei passaporti falsi quando servivano e trovando denaro e case per aiutarli a vivere.

Crede che lo sguardo degli intellettuali e degli scrittori sia importante per la comprensione dell’arte contemporanea?
Gli scrittori erano anche i maîtres à penser del momento: Pasolini, Moravia, Goffredo Parise Attilio Bertolucci, Natalia Ginzburg. Molti di loro hanno scritto per le mie mostre, per passione.

Qualche storia curiosa, qualche aneddoto di questi primi quarantanni?
Negli anni ’50 tra figurativi e astrattisti si creò una grande frattura. Prima erano tutti comunisti, poi la linea del partito scelse Guttuso come caposcuola e lasciò da parte Turcato e Scialoja. Una sera, Giuliano ed io eravamo a cena da quest’ultimo e si faceva una specie di gioco in cui ognuno raccontava chi era la persona più affascinante che aveva incontrato. Tutti frequentavamo Balthus che era allora direttore di Villa Medici e molti a tavola lo nominarono. Io, invece, dissi che la persona più affascinante era Guttuso, che aveva sempre usato il suo fascino come arma della consuetudine. A quel punto Toti, con la forchetta in mano, paonazzo in volto disse: Esci dalla mia casa. L’atmosfera si fece tesa e la moglie di Toti, Gabriella Drudi Scialoja, cercava di quietare il marito, che insisteva nel cacciarmi. Tra me e Toti non ci fu mai più una pacificazione. Non era una semplice gelosia, per lui si trattò di un vero e proprio tradimento a tutto tondo. Imperdonabile.
Nunzio, Cinquantadue carte e due matte, 1989 - Luigi Ontani, Ippomene (d
Tra le tante mostre c’è ne è una che ricorda come un successo personale?
No, io ho sempre pensato che il successo fosse degli artisti e non il mio.

Si è mai pentita di aver offerto ad un artista il suo spazio?
Sicuramente. Ma io non ho mai serbato rancore. Avrei ad esempio voluto fare la mostra di Maurizio Mochetti, ma poi ho avuto con lui un rapporto umano difficile, e ho un grande rimpianto per questo. Credo che sia necessario sopportare i malumori e le nevrosi degli artisti.

Quanto è importante, a suo parere, il lavoro svolto dalle gallerie private nell’ambito del circuito dell’arte romano?
Credo fondamentale. A Roma succedono poche cose e la parte pubblica è inadempiente (a dir il vero in passato lo è stata ancora di più). Il lavoro delle gallerie, al contrario, è stato continuo.

E dopo i festeggiamenti per il quarantennale?
La prossima mostra è di Mimmo Iodice. Ma ho ancora molti altri sogni…


intervista a cura di giuseppe giovanni blando

[exibart]

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