01 dicembre 2022

Intervista a Jago, protagonista alla Black Friday Gallery di Amazon a Milano

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Ospite dello Studio d'Artista alla Black Friday Gallery, spazio pop-up presentato da Amazon a Milano, Jago ci parla della sua idea di scultura, a partire dalla Reliquia

Jago, “Reliquia” (2020), marmo. Studio d’Artista, Amazon Black Friday Gallery, San Carpoforo Milano. Credits Amazon

Amazon ha presentato, presso la Rimessa dei Fiori di Milano a Brera, la Black Friday Gallery, uno spazio pop-up progettato e allestito da Mosaico Studio. Una piazza mobile e abitabile, resa suggestiva dalle luminarie della storica azienda pugliese De Cagna. Un tunnel immersivo apre su quattro ambienti tematici posti in successione, isolati da tende che scoprono installazioni artistiche, video-sonore e scultoree. La Green Room, allestita con vegetazione naturale, è stata concepita per affrontare l’argomento legato alla sostenibilità ambientale, attraverso la Climate Pledge Friendly, la nuova etichetta che Amazon ha lanciato quest’anno in Europa per incrementare l’utilizzo di prodotti sostenibili certificati; Scenari Italiani è una sala che valorizza l’artigianato al confine con l’arte, tra proiezioni e ceramiche; Il cielo in una stanza, la cui consistenza aerea si estende in ogni parte, guarda alle iniziative di Amazon a supporto delle comunità; infine lo Studio d’Artista, che ospita l’opera in marmo Reliquia (2020) dello scultore Jago, che abbiamo raggiunto per questa intervista.

Identità e Tradizione: lo Studio d’Artista oggi ospita tale tematica negli spazi di San Carpoforo a Milano. L’identità del soggetto, tra le tue opere, sembrerebbe affidata in parte all’iconografia della mano, in preghiera, in tensione, intrecciata, benedicente. Cosa conferisci a questa immagine?

«Ti racconto un aneddoto. Quando ho iniziato a lavorare la mia scultura, non avevo il materiale. Se vuoi fare scultura devi anche permetterti di poter avere la materia e il posto in cui creare; ti devi preoccupare di altre cose per poter fare realmente quello che ti riguarda. Ricordo un momento preciso in cui mi ritrovavo a dover andare in Toscana, a raccogliere i sassi sul greto del fiume. Ecco, quel Jago “ragazzo” voleva dimostrare a sé stesso, e agli altri, di essere in grado di saper fare cose più grandi, più importanti, con quello che aveva a disposizione.

La mano la definirei un punto di partenza perché “se fossi stato in grado di disegnare quella, sarei riuscito a fare tutto!”, diceva sempre mia madre. La mano, a mio parere, rappresenta la sintesi della persona, e saper cogliere quel dinamismo ci permette di capire la realtà più a fondo. Posso individuare altre motivazioni che poi mi hanno spinto ad agire, ma le scopro solo nel tempo e con strumenti differenti. C’è un momento in cui consapevolizzi, ma non bisogna mai rinunciare al sentimento iniziale, perché è quello che innesca la creazione».

Credi che l’icona rimanga oggi un modo attuale per veicolare un messaggio più alto?

«Lo spero, non tanto da parte mia quanto da chi impiega tempo per guardare la mia opera, aiutandomi ad osservarla in modo diverso. Io credo molto nel simbolo che non si muove. Ad esempio, la mostra, che è un format che tu conosci bene, è qualcosa che inizia e se ne va. Invece vorrei creare cose che rimangano lì, come valore simbolico che perdura. Magari questa mano continuerà a comunicare a distanza di anni; si saranno perse queste parole che diciamo ora, ma il contenuto dell’opera rimarrà».

La reliquia, a partire dai primi anni della cristianità, è stata un elemento cardine dell’appartenenza alla città. Oggi viene selezionata la tua opera Reliquia (2020), che vede, invece, la sua prima esposizione all’estero, a New York. L’arte ha una cittadinanza, per te?

«L’arte non ha mai cittadinanza. Penso che, come noi, possegga delle radici. C’è un motivo naturale secondo cui la nascita avviene in un determinato luogo, che porta con sé la sua tradizione e rappresentazione. Dovremmo avere a cuore la nostra eredità, perché fatta di un valore che possiamo esportare. L’opera Reliquia, ad esempio, rappresenta la mia mano non solo perché era quello che avevo di fronte, ma perché era la memoria di me stesso. Realizzarla mi ha costretto a vederla e osservarla in maniera ulteriore, rendendomi conto di uno strumento incredibile».

Dalla materia agli strumenti per plasmarla, la tua scelta ricade sull’Italia. Come si distingue, secondo te, il tuo tratto a livello internazionale? C’è un elemento comune alla storia dell’arte italiana che ti appartiene maggiormente?

«Il genio è il luogo. Tu, come creativo, sei condizionato dal posto che abiti; le dinamiche in esso sono più potenti delle tue capacità, di quello che sai di poter fare. È qualcosa che viene prima e non ha colpe. Utilizzo ciò che della storia dell’arte italiana mi ha fatto innamorare. Non come copia, ma come lingua che adotto per formulare un mio linguaggio ed esprimere un mio pensiero».

Rispetto al panorama contemporaneo, il tuo lavoro, da un punto di vista formale, è in stretto rapporto con la tradizione, pur comunicando in linguaggio attuale. In che modo coniughi questi due aspetti?

«Non credo che la trazione abbia esaurito i suoi argomenti, anzi, la trovo in stretta connessione con la nostra contemporaneità. Gli andamenti, certamente, sono cambiati; un tempo chi si poteva permettere un ritratto, diveniva immortale. L’artista aveva la funzione fondamentale di restituire una forma di eternità.

Oggi penso che bisognerebbe allontanare il concetto odierno di contemporaneo, è trattato come se fosse una corrente. L’arte non appartiene mai solo al nostro tempo, e se riuscissimo a uscire da questa idea, come tentativo, si potrebbero includere più aspetti possibili. Io mi sento in comunicazione con il linguaggio dell’antichità, tento di apprenderne le sfumature che sento aggiungersi al mio vocabolario e all’attualità che ci circonda. Voglio parlare quella lingua per dire le mie cose. Guardo a ciò che abbiamo ereditato con amore e riconoscenza assoluta, perché probabilmente non farei questo se non ci fosse stato qualcuno, prima di me, ad averci restituito quella bellezza».

L’iniziativa benefica rientra tra le missioni di Amazon. Allo stesso modo, di recente, sei stato invitato da Save the Children, al confine con l’Ucraina, per un gesto solidale. Che ruolo assume l’arte in quei contesti estremi?

«L’esperienza con Save the Children come con altre opportunità, perché di questo si tratta, è un modo per capire come la tua opera possa partecipare alla vita degli altri, fare attivismo. Non serve per forza essere sul campo di battaglia per aiutare, ci sono tanti modi purché si vada in quel tipo di direzione. Attraverso il gesto artistico si può essere una risorsa, un motivo di riqualificazione, e il termine umano diventa un modo anche per misurare il valore della mia opera. A cosa serve l’applauso quando è finito? Vorrei che l’arte generasse dinamiche altre, quasi un tornare ad essere monumento, un punto di riferimento per più persone. In questo modo, diventa un simbolo potentissimo».

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