22 dicembre 2005

Italo e Pier Paolo. Attenti a quei due

 
di alfredo sigolo

Nel giro di un decennio se ne sono andati Pier Paolo Pasolini, nel ’75, e Italo Calvino, nell’’85. Così capita che quest’anno l’Italia si trovi a ricordare contemporaneamente due giganti della nostra storia culturle. Un’occasione per riflettere su come due intellettuali diversi e uguali abbiano profondamente imbevuto del loro messaggio l’arte degli ultimi anni…

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Calvino e Pasolini, due personalità opposte eppure con alcuni fondamentali punti di contatto. Innanzitutto due uomini di sinistra che hanno però assunto, in modo diverso, una posizione duramente critica nei confronti del Pci dell’epoca. Calvino si rese inafferrabile spiccando il volo, Pasolini entrò a trivella nel cuore della terra per scuoterla sotto i piedi di chi stava sopra. Entrambi mossero dalla classe popolare: domestica, familiare e cosmica quella di Calvino, conflittuale, sacra e carnale quella di Pasolini. Su tutto due pensatori che, nel pieno del passaggio dalla modernità alla postmodernità, in modo diverso, sfuggono alla degradazione omologante progressiva del nuovo pensiero debole, collocandosi oltre. Da un lato Jean Starobinski nega la postmodernità di Calvino facendo appello al suo sottrarsi alla sintesi attraverso la stratificazione delle antitesi e il procedere contraddittorio per dicotomie, dall’altro c’è Carla Benedetti che vede Pasolini scegliere lo scontro e la collutazione con la realtà italiana come atto sovversivo di resistenza.
A proposito di Carla Benedetti, corre l’obbligo di citare almeno due cose fondamentali: il “Pasolini contro Calvino”, testo che nel ’98, quando uscì, creò un vero caso letterario su tutti i più importanti quotidiani nazionali; e, a distanza di quattro anni, nel 2002, un giusto complemento dal titolo “Il tradimento dei critici”, nel quale la scrittrice denunciò la paralisi e l’abdicazione della critica nella connivenza con il potere.
Pur nelle legittime argomentazioni della Benedetti, che sostiene nel ’98 l’atteggiamento conflittuale dell’ultimo Pasolini contro un Calvino accomodante, rispetto alla crisi generazionale negli anni a cavallo tra i ’60 ed i ‘70, viene Un ritratto di Italo Calvino da osservare come, rispetto invece alla crisi della critica come si è venuta sviluppando fino alla denuncia del 2002, i due pensatori rappresentano due modelli salvifici, due posizioni di resistenza antitetiche ma efficaci. Ed è forse questo il motivo per il quale ancor oggi rimangono fonte di dibattito e di indagine anche delle nuove generazioni orfane di alternative.
Per quanto attiene a Calvino, il viaggio fantastico tra “Le città invisibili” (1972) resta uno dei testi che ha condizionato tutta la ricerca sui concetti di territorialità e borderline.
Nella mostra del 2001 “Africas: the artist and the city” tenutasi al Centre de Cultra Contemporania di Barcellona, Pep Subiros riprende il concetto esposto da Okwui Enwezor a Documenta XI, secondo cui le città africane vivono in una perenne condizione di assedio, riscattandole alla luce di Calvino come archivi di una memoria collettiva, segnatamente caratterizzata dall’eterna sospensione tra dominazione e desiderio.
Nella Photo-London Art Fair di quest’anno, Steffi Klenz ritrae il suburbio londinese come un collage di luoghi mitici calviniani, citazione dichiarata che sta alla base anche della serie fotografica Location Studies, dello svedese Jonas Dahlberg, che interviene digitalmente ad eliminare dalle città tutti i segni distintivi e caratterizzanti.
In Italia, alla Triennale di Milano, Gianni Canova ha dedicato una mostra intera alle città calviniane, coinvolgendo designer, architetti, cinema, musica e videoarte (un intervento di Studio Azzurro). E Roberto Pinto cita Le Città invisibili a proposito dell’opera narrativa e fantastica di Pierluigi Calignano, a Viafarini nel 2002.
Ma anche Torino diventa specchio della città calviniana di Armilla per Guido Curto, quando descrive un intervento site specific di Paolo Grassino sulla facciata di Palazzo Bricherasio.
Caso singolare è la mostra dedicata alla Sindrome di Tamerlano, recentemente tenutasi ad Orvieto. Protagonisti artisti provenienti dall’est europeo ex blocco comunista, a svelare unSergio Citti e Pier Paolo Pasolini mondo sconosciuto, da scoprire attraverso le voci di creativi che hanno scelto di rimanere in patria e non emigrare, per testimoniare i problemi di popolazioni stritolate da povertà e problemi sociali. Caso singolare, dicevamo, perché senza che Calvino sia evocato, resta un parallelo latente.
L’altro testo calviniano fondamentale sono le Lezioni americane o sei proposte per il nuovo millennio tenute alla Harvard University, rimaste incompiute e pubblicate dopo la morte, nel 1988. In esse Calvino descrive, tra citazione e riflessioni, cinque qualità da mettere nella valigia per affrontare il nuovo millennio così prossimo e che per lui si rivelerà, però, troppo lontano: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità.
In particolare la riflessione sul concetto di “leggerezza” ha affascinato molti artisti.
Tra le interpretazioni geniali si pone senza dubbio quella dell’americano Jimmie Durham. La sua Ape Piaggio schiantata sotto il peso di un masso ha fatto parte quest’anno di una mostra da Franco Soffiantino, curata da Roberto Pinto, il cui titolo era giustappunto “Le ragioni della leggerezza”. Ragioni che, artiste come Laura Viale o Elena Arzuffi, scoprono nella quotidianità.
Il giovane e promettente artista messicano Diego Theo crea opere con polvere di marmo o raccoglie bottiglie di Coca Cola in frantumi per ricostruirle con uno spirito archeologico che si ispira direttamente alla lezione calviniana. Così anche Manfredi Beninati, presente all’ultima Biennale veneziana, per il quale Calvino, dopo la lettura de “Il Castello dei destini incrociati” (1969), è divenuto uno dei riferimenti letterari prediletti (si pensi ai suoi “Tarocchi”).
Da Joseph Kosuth, che nel 2002 a Torino eseguì il suo progetto per “Luci d’artista” ispirandosi a Nietsche e Calvino, al giovane artista designer milanese Tonylight, che cita le Cosmicomiche (1965), Calvino affascina nuove e vecchie generazioni.
Elisabetta Benassi, You
Nell’importante mostra alla Tate Zero to infinity: Arte Povera 1962-1972 fu esposto anche un testo di Calvino, Perché leggere i classici, che raccoglie spigolature di saggi e articoli pubblicati su giornali e riviste, e pubblicato solo nel 1991. Questo aprirebbe un capitolo sui legami di Calvino con gli artisti dell’epoca, da Carol Rama a Valerio Adami, da Carlo Levi a Fausto Melotti, fino al Renzo Piano che, qualche settimana fa, sulle pagine de L’Espresso raccontava di un Calvino affascinato dal cantiere del suo Beaubourg, forse trovando ispirazione per la sua Armilla, una delle città invisibili. Ma questa è un’altra storia.
Così come sono un’altra storia, l’amicizia di Pier Paolo Pasolini con Guttuso o Zigaina, spesso collaboratore stretto del regista, o con il fotografo Dino Pedriali, che fu anche il suo ritrattista ufficiale.

Di Pier Paolo Pasolini qui interessa piuttosto mostrare come la sua influenza duri ben oltre la sua vita.
Viene subito a mente il recente Francesco Vezzoli che, alla fondazione Prada di Milano, costruisce la sua personale più importante intorno al mito del regista: di qua gli scranni McKintosh come quelli in Salò, davanti allo schermo vuoto con la scritta “fine”, di là un finto talk show titolato Comizi di non amore,Barbara Nahmad, Pier Paolo Pasolini riprendendo il titolo della famosa inchiesta condotta da Pasolini sui temi della sessualità.
Ma c’è anche Elisabetta Benassi, che nel suo Tutti morimmo a stento presentato al Macro nel 2004, interrogandosi sui destini dell’umanità nell’era tecnologica, cita abbondantemente Pasolini, con il quale ai suoi inizi si immaginava di giocare a pallone (You’ll never walk alone).
Nel 2002, sulla rivista Tema celeste, Laura Cherubini aveva tracciato un suo percorso ideale nell’arte contemporanea ispirata dal cinema di PPP, partendo dalla storica performance di Fabio Mauri alla Gam di Bologna il 31 maggio del ’75, quando sul corpo del regista amico l’artista proiettò Il Vangelo secondo Matteo. La Cherubini, che da quella riflessione oggi trae materiale e spunti per una mostra che circolerà a Torino e Roma, dal titolo Pasolini e noi, cita poi il Pierre Huyghe del ’95 de Les incivils, sorta di remake di Uccellacci e Uccellini, la Tracey Moffatt del ’97 che, in Up in the sky, muove invece da Accattone, Adam Chodzko per Reunion Salò, Grazia Toderi per il video del ’98 per il balletto della Compagnia Virgilio Sieni, ispirato a Il Fiore delle 1001 notte e Giulio Paolini, che ha progettato scene e costumi per la messinscena di Teorema in occasione del Maggio Fiorentino del ’99.
Ma la lista degli artisti contemporanei che citano Pasolini è anora lunga: Mario Ceroli immagina un inedito dialogo con Paolo Uccello nel ’78-’79, Luciano Fabro-Pier Paolo Pasolini fu il titolo di una mostra tenutasi nell’81 al museo belga Van Hedendaagse, mentre il curatore Marco Meneguzzo nel 2003 trova nei Cementiarmati di Giuseppe Uncini un percorso estetico in molti casi vicino a quello del regista.
Più recentemente Alberto Garutti espone nella metropolitana milanese uno striscione con un brano da Il Vangelo secondo Matteo sul riposo degli apostoli, inducendo una riflessione sul silenzio e la sosta. Barbara Nahmad colloca Pasolini tra le icone degli anni ’60 nella personale Yesterday Now, Roberto Coda Zabetta ne dichiaraGiulio Paolini, L’occhio di Calvino, 1996 - Collage originale per la copertina del libro di Marco Belpoliti, “L’occhio di Calvino”, Einaudi, Torino 1996 l’influenza per i suoi primi piani sofferenti in bianco e nero, Marcello Maloberti ne riconosce l’influenza sul suo lavoro, specie per le narrazioni contratte, Andrea Salvino dipinge una scena di Ostia, film del 1970 nato dalla collaborazione tra Pasolini e l’amico recentemente scomparso Sergio Citti. E come non ricordare il Totò nudo di Diego Perrone che, invecchiato e fragile, ricorda tanto quello di Uccellacci e Uccellini.
Finisce sul litorale di Ostia il fotoromanzo a quattro mani realizzato da Elena Stancanelli ed Elisabetta Benassi; Gli argonauti è volutamente ispirato alle fughe notturne pasoliniane; nel 2000, Gianluigi Toccafondo dedica a PPP un cortometraggio, dal titolo Essere vivi o essere morti è la stessa cosa, nel 25° dalla morte. Chiudiamo la schiera italiana con la coppia Ciprì e Maresco che nei filmini Kind of cinico, fanno commentare l’opera del regista ad Arruso, omosessuale siciliano.
Anche all’estero i tributi eccellenti non mancano. L’opera dello svizzero Ugo Rondinone è intrisa di reminescenze del cinema italiano degli anni ’60, tra cui Antonioni e Pasolini, Marlene Dumas nell’88 presenta ad Amsterdam un portfolio dal titolo Ecco Pier Paolo Pasolini, il pittore tedesco Dietmar Lutz crea un ciclo di opere dedicato a Teorema e Jane Kaplowitz si ispira direttamente alla cronaca ritraendo il corpo morto del regista. Mike Kelley, in una personale milanese del 2004, s’inventa un provino per interpretare il ruolo del poeta e regista e Alfredo Jaar intitola Le ceneri di Gramsci la sua mostra romana, dichiarando chiaramente una delle sue fonti privilegiate.
Damiàn Ortega, ad Arte all’Arte del 2003 espone 120 bottiglie di Coca Cola citando De Sade, ma nell’interpretazione di Pasolini, celebrato anche da Cerith Wyn Evans a Guarene Arte nel ’99, associando ad un video girato ad Ostia una scritta al neon: “In girum imus nocte et consumitur igitur”. E nel Morgenstern Oliver Pietsch ricostruisce la storia di Cristo nelle riduzioni filmiche più celebri, tra cui quella pasoliniana, mentre nel 2001 Lois Weinberger copre i pavimenti del carcere minorile di Roma con teli bianchi su cui dipinge parole e frasi tratte dal Corano, dalla Bibbia e dagli Scritti Corsari.
Francesco Vezzoli, Comizi di non amore
Tra le più suggestive sta però, la descrizione che fa Jerry Saltz di Paul McCarthy sul Village Voice: una reincarnazione mista di Schiele, Grosz, Kienholz e Pasolini.
L’ultima annotazione è per una mostra a tre che sta per aprire a Roma, a Villa Poniatowski. Si chiama “Divina Mimesis” ed è un omaggio di Cy Twombly, Giulio Paolini e Rosemarie Trockel rispettivamente a Pasolini, Calvino ed Elsa Morante, altra grandissima mancata nell’’85.
Cosa rilevare in conclusione? Da un lato la nutrita schiera di artisti citati (e non) che si sono ispirati a Calvino e Pasolini, che sta a dimostrare quanto il loro messaggio fosse universale e cosmopolita, dall’altro però non si può non notare la mancanza di personalità di analogo spessore intellettuale nella contemporaneità. E ciò rischia inevitabilmente di disciogliere il pensiero nel mito, facendolo diventare autoreferenziale, senza che in realtà vi sia alcun segnale di ripresa del dibattito interrotto. Non per la mancanza di chi lo mosse, ma per pochezza dei loro interlocutori.

alfredo sigolo

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n.26 – nov/dic 2005

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