06 aprile 2012

Joachim Schmid, Il fotografo che non fotografa

 
Incontriamo l’artista tedesco per analizzare le dinamiche della fotografia come fenomeno sociale che si espande dai mercatini delle pulci, che Schmid frequenta con la passione del collezionista, a Internet. E per parlare della formidabile quantità di immagini che la nostra società produce quotidianamente. Strana attitudine se si riflette, suggerisce lui, che fotografiamo sempre le stesse cose [di Manuela De Leonardis]

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s.t. foto libreria galleria è il luogo ideale per l’incontro con Joachim Schmid (Balingen, Germania 1955, vive a Berlino), a Roma per il workshop (a cura di 3/3) alla Scuola Romana di Fotografia. Un bicchiere di vino bianco per l’artista tedesco, perfettamente a suo agio tra le tante immagini di epoche diverse alle pareti, su mensole e scaffali dello spazio, firmate da grandi autori come da perfetti sconosciuti. Una sorta di orchestra polifonica dello sguardo che riflette anche il pensiero di Schmid.

Nella capitale torna sempre volentieri e, malgrado i serrati impegni professionali, è rilassato. Tra i prossimi appuntamenti italiani, la partecipazione al Festival Internazionale della Cultura di Bergamo (23 aprile 2012), insieme all’artista spagnolo Joan Fontcuberta (che con Schmid, Clement Cheroux, Erik Kessels e Martin Parr faceva parte del team curatoriale della mostra From Here ai Rencontres d’Arles 2011), la presenza al MIA Fair – Milan Image Art Fair (4-6 maggio) – e, in autunno, la personale al Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo.

Che influenza hanno avuto i tuoi studi in Visual Communication nel lavoro di “fotografo che non fotografa” che porti avanti dagli anni Ottanta?

«Penso che mi abbiano dato un modo di vedere la fotografia diverso che se l’avessi studiata. Non ho mai pensato che fare fotografie potesse essere al centro del mio lavoro. Non è importante che sia io a scattare o che la foto sia realizzata da altri».

Artista concettuale e critico fotografico – dal 1982 al 1988 hai realizzato il bollettino Fotokritik – sono due ruoli che si intrecciano nel tuo lavoro. In quale dei due ti senti più a tuo agio?

«Chiaramente oggi è importante il mio lavoro artistico, ma ho cominciato come critico. Ho studiato per diventare un fotografo, però quest’esperienza mi ha creato molte più domande sulla fotografia, che risposte. Così ho smesso di fotografare e ho cominciato a scrivere, dando vita alla rivista. All’epoca, però, c’erano poche persone interessate agli argomenti che proponevo. Poi quest’attività di critico si è sviluppata in un’attività artistica, dopo un processo di due o tre anni. Le immagini con cui lavoravo non si trovavano nel mondo dell’arte. Io scrivevo di quelle immagini, finché non ho realizzato che avevano più potere delle parole che potevo scrivere. Allora mi sono chiesto perché non lasciarle alla loro potenzialità. È solo per caso che sono diventato artista».

Hai cominciato la tua ricerca collezionando foto anonime acquistate a Berlino sulle bancarelle del mercato delle pulci. Una ricerca che si è evoluta – ed è tuttora un work in progress – con le fotografie trovate per strada (Bilder von der Straße). Quale è il tuo approccio emotivo ogni volta che intercetti un nuovo pezzo?

«Parli di due progetti diversi che, però, hanno la stessa base. Dato che non mi sento fotografo, il mio approccio è più da collezionista, nel senso dell’accumulo. Qualche volta ho messo le mie foto di famiglia mischiate a quelle che compro, e mi è capitato di non ricordare quali sono le mie e quali quelle degli altri. Non è importante. Nel progetto delle foto di strada ho studiato le metodologie usate dai musei, così ho avuto una conoscenza più profonda di come e perché – nella società – si collezionano le immagini fotografiche. La fotografia è un fenomeno di massa, ma solo una piccola parte entra nelle collezioni dei musei. La selezione è individuale, naturalmente, ma dato che non si può scegliere tutto, mi sono interessato a ciò che viene escluso. All’epoca in cui scrivevo per la rivista il mio ufficio era un caffé e una mattina, camminando per arrivarci, ho trovato una foto istantanea strappata in due. Non era una foto perduta, ma volutamente distrutta e buttata via. In quel momento ho pensato ‘ecco cosa manca nei musei!’. Qualcosa di così brutto o disturbante che la gente pensa che non possa affatto avere un futuro, perché nessuno la deve vedere di nuovo. Da quest’immagine è iniziato il mio progetto di fotografie di strada che è durato trent’anni e che si è appena concluso. Uno dei motivi per cui ho deciso di portarlo al termine è perché, nell’era digitale, la gente usa il tasto ‘delete’ e le stampe non si trovano più. C’è anche un altro problema, il criterio della collezione è di includere soltanto stampe fotografiche originali e adesso non si capisce più cos’è una stampa fotografica. È tutto mischiato! Così, dopo aver collezionato mille foto, ho finito con l’ultima – la numero mille – trovata a Gallipoli la scorsa settimana. È una bellissima foto di una persona con la Vespa».

Con il tuo lavoro pensi di restituire identità – una sorta di memoria collettiva – alle immagini anonime di cui ti appropri?

«Non so se restituire identità sia corretto, si tratta molto più di riconoscere le forme. Penso che ci sia un numero limitato di patterns. La gente fa le stesse foto in continuazione. Gran parte del mio lavoro è sull’identificazione di queste forme, in particolare nelle istantanee. Io per primo, poi, mi sono stupito di quello che viene caricato su flickr. Alla base non c’è neanche una foto unica – speciale – sono immagini che si ripetono una dopo l’altra, in continuazione. La gente fa il giorno dopo la stessa foto che ha fatto il giorno prima e che continuerà a fare. La mia non è una valutazione critica, solo un’analisi. Lo stesso fenomeno, del resto, esiste anche nella fotografia artistica. Basta andare in una qualsiasi fiera d’arte e si vede sempre lo stesso tipo di foto, tipo il “paesaggio minimale” con il cielo vuoto. L’anno successivo si vede il nuovo modello. È un fenomeno della produzione di massa. Ciò è più ovvio nella fotografia non professionale, mentre in quella d’arte è più difficile da capire, essendo la produzione più limitata. Ora, per la prima volta nella storia, abbiamo accesso a tutte queste immagini. Quando, vent’anni fa, ho realizzato il mio lavoro, collezionando fotografie acquistate nel mercato delle pulci, ero condizionato dal numero limitato delle immagini stesse e anche perché appartenevano solo a una o due generazioni. Adesso, invece, abbiamo la possibilità di vedere in tempo reale quello che la gente fa ovunque nel mondo, per esempio cosa hanno mangiato oggi – per pranzo – in Giappone. Possiamo vedere migliaia di immagini così. Non c’è mai stato tanto flusso come ora. È come entrare in cucina e aprire il rubinetto dell’acqua, la quantità di immagini è illimitata!»

Dalla fine degli anni Novanta, attingendo al mondo virtuale di internet e poi alla fotografia digitale dei telefoni cellulari, dichiari di non essere un nostalgico. Inevitabilmente l’approccio è diverso. Quali sono le potenzialità e i limiti di questi nuovi strumenti di comunicazione?

«I limiti sono difficili da definire. Uno dei punti importanti è che la fotografia quotidiana non è più nostalgica, cosa che mi rende molto felice. Prima si è stati sempre indietro al tempo, alla storia, ai familiari scomparsi, ai luoghi che non ci sono più… Ora, invece, possiamo vedere le cose in tempo reale e parlare di cultura visuale da oggi a oggi. L’altro punto è che non siamo mai stati davanti a così tante immagini e – come dicevo prima – la possibilità di vedere tante realtà diverse nello stesso momento. Prima avevamo la possibilità di accedere solo ad una parte limitata della produzione fotografica, come le foto di famiglia o quelle che vedevamo nelle case degli amici. Adesso basta aprire flickr o un’altra fonte e si vedono bilioni di immagini. Sono convinto che al giorno d’oggi le persone conoscano molto più della fotografia che dieci o vent’anni fa e sono più consapevoli. Non tutti però, perché per la maggioranza è gente ancora idiota che non ha idea di quello che fa. L’1 per cento si salva e realizza immagini interessanti e, su migliaia di scatti, ho trovato tanti lavori affascinanti. Che avrà fatto questa gente prima? È come youtube, anche qui si trovano tante cose interessanti, sebbene gli autori non siano grandi registi di cinema, ma realizzano questi ‘short video’ con creatività. Questo mi piace particolarmente, perché apre nuovi campi, nuove forme. Sono convinto che tra venti o trent’anni la definizione di arte sarà completamente diversa».

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