20 febbraio 2012

La prima volta di Marcel

 
Arriva finalmente in Italia, al MAMbo di Bologna, una retrospettiva dedicata al grande, ma poco conosciuto, artista belga Marcel Broodthaers. Una meteora nell’empireo artistico del XX secolo: solo 12 anni di attività, ma così fulgida da illuminare costellazioni successive. La bella mostra, curata da Gloria Moure, si concentra su sette anni di carriera e sul rapporto tra arte e scrittura. Un’occasione da non perdere per scoprire un talento davvero inusuale [di Alberto Zanchetta]

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La retrospettiva di Broodthaers non è adatta per un pubblico a digiuno d’Institutional Critique, e a dire il vero non è una frequentazione agevole neppure per molti addetti ai lavori. Aiuta sicuramente aver letto il folgorante A voyage on the North Sea di Rosalind Krauss (tradotto in Italia dalla Postmediabooks), se non altro per riuscire a contestualizzare il periodo in cui l’artista ha mosso i suoi passi. L’esposizione “L’espace de l’écriture”, ordinata a Bologna da Gloria Moure, copre un arco di sette anni, non pochi tenendo presente che la carriera dell’artista ne conta solo una dozzina. Il suo tardivo ingresso nel mondo delle arti visive, congiuntamente alla morte prematura, parrebbero averlo sfavorito, nient’affatto: è proprio il suo background, la sua trasversalità ad averlo consacrato come geniale interprete di un’epoca turbolenta. Affermatosi come poeta, Broodthaers abbandonò la letteratura per rendere plastica la poesia; lui stesso ammetteva di essersi convertito al ruolo di artista per l’impossibilità di collezionare le opere d’arte, trasformandosi nel “creatore” di ciò che anelava comprare. Scorrendo la sua produzione emerge infatti una propensione all’accumulo, all’archivio e forse persino all’archeologia, come testimonia il suo vasto e vario inventario, costellato di opere che sono esse stesse un apparato documentativo; con questo atteggiamento appropriazionistico aveva reso omaggio anche ai suoi maestri spirituali, Magritte ad esempio, e Mallarmé in particolare, da lui considerato il fondatore dell’arte contemporanea.

Rivisitando i maestri della modernità, da Duchamp a Ernst a Beuys, Broodthaers ha attraversato il ventesimo secolo alla maniera di una scheggia, allora impazzita e oggi restituita alla sua spiccata chiaroveggenza. Lungimiranza che il critico e storico dell’arte Benjamin Buchloh aveva già presagito, ammettendo che egli aveva «anticipato la completa trasformazione della produzione artistica in un settore dell’industria culturale, fenomeno che riconosciamo soltanto adesso». Parole datate al 1987, e che oggi (più di allora) possiamo condividere in toto. Nel poco tempo a sua disposizione, l’estroso belga ha sfidato i canoni visivi e tutte le normative stilistiche, mettendo a soqquadro il ruolo dell’artista e quello dell’arte, impresa che gli è valsa – infine – la consacrazione a livello internazionale. Con il senno dei posteri, non si può comunque negare l’influsso esercitato, anche se solo indirettamente, sulle successive generazioni di “artisti-archivisti”, da Feldmann a Dion ecc., facendo del proprio legato concettuale un testamento spirituale; debito imprescindibile per molte delle estetiche dell’ultimo ventennio che sono però in difetto, rispetto a Broodthaers, del suo mordace rimpasto di significati e codici ancor più che di oggetti.

La mostra del MAMbo è introdotta da una sala “tropicale”, un Jardin d’hiver (1974) che ci stranisce con la sua commistione di esoticità e di borghesia, da lì è poi possibile accedere alla Sala delle Ciminiere, in cui le sezioni espositive diventano un unicum, offrendo allo spettatore la – esatta – percezione di quello che lui intendeva per «museo fittizio», vale a dire il Musée d’Art Moderne, Départment des Aigles (1968-1972) che è il suo grande chef d’œuvre. Osservando queste opere si comprende molto bene in che modo Broodthaers sia riuscito a mettere in discussione la possibilità di “leggere” l’opera servendosi dello spazio espositivo come di una ri-scrittura del mondo dell’arte, ed è proprio la Moure a sottolineare la sua capacità di «parlare della realtà non perché i nomi definiscono, ma perché le frasi disegnano». Per l’occasione sono stati riproposti in situ alcuni allestimenti del ’74 e l’installazione della sua ultima mostra, la Salle Blanche (1975) che è tutto fuorché priva di “contenuto”.

La pratica linguistica, che dà centralità al rapporto ternario tra oggetto-immagine-segno, si snoda tra percezione e legittimazione, tra ambiguità e convenzione, concetti che non è sempre facile desumere per chi non ha dimestichezza con il vocabolario francese. Colpa di quei calembours che mescolano il significante all’insensatezza, con humour sottile, sempre improntato al concetto di décor e all’importanza di “designare” o di sovvertire le regole, riducendo l’esperienza a una pura rappresentazione. L’impressione che si ricava dalla retrospettiva – ma sarebbe più corretto chiamarlo détournement istituzionale – è certamente stimolante e accattivante, non lascia né delusi né perplessi, benché non tutti siano riusciti a focalizzare per davvero il pensiero di Broodthaers. Il coraggioso tentativo del MAMbo ha aperto una porta che non dovrebbe essere chiusa, tantomeno dimenticata a mostra terminata, perché Broodthaers è un artista che richiede di essere riscoperto in modo continuativo. È dunque necessario approfondire questo discorso, che si dà come spazio de l’écriture.

alberto zanchetta
 
 
[exibart]
 

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