04 aprile 2012

L’intervento/Źmijewski Ma l’arte salverà veramente il mondo?

 
L’artista polacco Artur Żmijewski è il curatore della 7. Berlin Biennale che apre a fine aprile. Non una mostra e pochi gli artisti. Al posto di opere, idee, progetti, laboratori. E la presenza di molti dei movimenti di Occupy. Per verificare se l’arte può incidere nella realtà trasformandola sul serio. Non da sola, ma insieme a chi è interessato al cambiamento. Non chissà quando, ma qui e ora [di Elisa Govi]

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«L’arte non uscirà mai dal suo ghetto finché qualcuno non ne avrà bisogno. Tra costoro potrebbero esserci i movimenti sociali che lavorano per risolvere i bisogni politico-economici delle società di tutto il mondo, ma non sembra che questi movimenti abbiano bisogno degli artisti per raggiungere i loro obiettivi. L’arte ha bisogno di essere reinventata». Citando le parole di uno scrittore russo, Artur Żmijewski, artista polacco socialmente impegnato, ha cominciato a parlare della 7. Berlin Biennale (27 aprile -1 luglio), che cura insieme a Joanna Warsza. L’occasione è stata il secondo appuntamento di Solidarity Action, realizzato con l’Istituto Svizzero nel magnifico spazio di ESC, atelier autogestito dal 2004 e animato da studenti, ricercatori e precari, abbiamo incontrato Artur Żmijewski, curatore insieme della 7. Berlin Biennale. Un appuntamento impedibile per carpire come sarà questa sua Biennale che ha già suscitato reazioni e interrogativi.  

Qual è l’idea che anima la 7. Berlin Biennale?
«Cercare di capire se e come l’arte può agire politicamente e produrre un cambiamento sostanziale della realtà, oggi. Quando abbiamo iniziato a pensare a questa Biennale, avvertivamo la necessità di aprire dei confini di un certo modo di fare arte che non ci convinceva più. Di superare una sensazione di aria asfittica e ferma. Da qui parte tutto».
“Forget Fear” è la prima di una seria di pubblicazioni dalla 7. Berlin Biennale. Che cos’è questo libro che presenti stasera?
«È una raccolta di testi, interviste per lo più, non solo ad artisti, ma a soggetti che praticano la politica e che lavorano nel sociale. Abbiamo trovato persone che si impegnano in processi concretamente politici attraverso l’arte, come il movimento Occupy Geneve e qui, a Roma, il Teatro Valle Occupato. L’idea principale di questa Biennale è interrogarsi sul fatto che l’arte possa funzionare come versione alternativa della politica. Per me la politica è qualcosa di molto pragmatico, che ha il suo fondamento nella teoria, ma che poi deve tradursi  necessariamente in azione, in lavoro fattivo sostanziale. È per questo che tra le persone a cui abbiamo rivolte le nostre domande, che in alcuni casi si sono tradotte in un vero e proprio interrogatorio, non ci sono solo artisti ma anche politici, in particolare due: Antanas Mockus, ex sindaco di Bogotà, e Jerzy Hausner che è stato Ministro in Polonia. A loro abbiamo chiesto come l’arte possa influenzare la realtà politica. Mockus ha utilizzato molto l’arte come attività politica, il suo obiettivo era produrre un cambiamento in una città segnata dalla violenza e dal narcotraffico. E lui, attraverso l’arte, ci è riuscito. Hausner ha sostenuto un movimento nato circa tre anni fa in Polonia, “Cittadini della cultura”, per stringere un nuovo contratto sociale con chi governa, e ha avuto successo».

“Forget Fear” costituisce dunque una tappa fondamentale del vostro lavoro di curatori?
«Certamente, il libro rappresenta anche una strategia del nostro lavoro di ricerca. Come curatori non siamo interessati a visitare gallerie e studi degli artisti per selezionare qualche bella opera da esporre, ma abbiamo scelto di viaggiare tanto, soprattutto nei Paesi che stanno attraversando una fase travagliata, come la Russia e l’Ungheria, per cercare sul luogo quelle che potevano essere le guide per la comprensione dei problemi del Paese. Ad esempio, in Ungheria, che vive un grande conflitto legato alla minoranza rom, abbiamo incontrato Tímea Junghaus, dedita da tempo alla risoluzione di questo problema. In Russia abbiamo incontrato molti attivisti, lì non c’è davvero confine tra artista e attivista, gli artisti sono tutti politici o comunque persone che lottano nelle strade. Solo ora il mercato sta segnando un confine tra arte e attivismo, ma è cosa recente. Le persone che abbiamo incontrato sono coinvolte nell’utilizzazione dell’arte per cambiare il contesto russo, come il gruppo Voina, che in russo significa letteralmente guerra, che si sta battendo per mandare via Putin e cambiare il governo».
Dunque la Biennale si è costruita così, viaggiando e ricercando questi tipi di realtà artistiche?
«L’arte può essere qualcosa che permette alla realtà di accadere oppure no. Questo ci interessava esplorare. Ad esempio, abbiamo incontrato Khaled Jarrah, artista palestinese di Ramallah, che ha creato il timbro dello stato palestinese con l’idea di metterlo sui passaporti. Un atto illegale che falsifica il documento. E ci sono persone disposte a farsi timbrare il passaporto con il rischio di vederselo annullato. Ci ha interessati la proposta concreta, che non è più solo critica sociale, ma un gesto materiale per creare una comunità internazionale attorno all’idea di uno Stato palestinese indipendente. Dunque, un gesto artistico che determina conseguenze e non un’arte passiva, neutra: chi si fa timbrare il passaporto non è più solo spettatore».

Se non di “opere appese”, di cosa sarà fatta questa Biennale? 
«Paweł Althamer organizzerà un incontro tra persone per esplorare come il linguaggio visivo possa essere uno strumento di comunicazione. In Biennale terrà un workshop di due mesi aperto a chiunque vorrà farne parte, agendo attraverso le immagini. Il luogo del congresso è una magnifica chiesa sconsacrata. Questo il progetto più friendly dell’intera Biennale, lontano dalla logica più radicale che caratterizza la maggior parte degli altri interventi».
Ad esempio?
«La ricostruzione di una battaglia. Fenomeno molto popolare come modo di approcciarsi alla storia e ricostruire episodi del passato. In Russia e Polonia va molto di moda e riguarda spesso battaglie medievali, ma coinvolge anche scontri legati alla seconda guerra mondiale. Organizzeremo la messa in scena della battaglia di Berlino, gli ultimi giorni della guerra con la resa di Hitler,  e ricostruiremo lo stesso scenario a Berlino e Varsavia. Nella politica della Europa orientale la questione della memoria è centrale anche a livello politico, è uno strumento con il quale ci si fanno amici e nemici. Allora chi organizza queste battaglie fittizie non mette solo in scena l’arte, ma esplora in senso attivo questi fenomeni. Le persone che partecipano alle performance sono attori e politici self-made che credono in qualcosa, e quello che mi piace di loro è che non hanno paura di utilizzare una strategia artistica, in questo caso teatrale, per fare qualcosa che va oltre il puro teatro».

Altre anticipazioni?
«Christina Lammert, sociologa e antropologa, porta un progetto che svela un altro modo nel quale l’arte oggi e la comunicazione visiva agiscono nella società. Si tratta di coinvolgere alcuni medici chirurghi a fare disegni nella loro clinica. Medici che si occupano di cancro al seno, paralisi facciali e trapianto di nervi, la sua idea è stata di convincerli a impegnarsi in alcune sessioni di pittura per spiegare quali procedure mediche utilizzano per tagliare il corpo umano e trasformarlo. I chirurghi, insomma, si trasformano in artisti e utilizzano il disegno in modo concreto, e non in astratto, per entrare in relazione con i pazienti. In Biennale organizzeremo un seminario di un giorno in cui  mostreranno un filmato sulla loro attività quotidiana, cui seguirà un workshop di pittura. Si metteranno in luce aspetti nascosti del lavoro dei medici e si potranno chiedere cose e fare domande di solito non fattibili».
C’è dell’altro?
«Occupy Amsterdam. Ci siamo incontrati già più o meno un anno fa e non solo con gli attivisti di Amsterdam, ma anche con il gruppo di Berlino e molti altri. Non è un progetto, nel senso che abbiamo deciso di non curarlo. Gli abbiamo detto che riteniamo che la Biennale sia una buona piattaforma per incontrarsi e fare lavoro politico, che possiamo fornire un sostegno economico perché vengano a svolgere lì il loro lavoro. Tutto qui. L’esito non ci riguarda, è indipendente da noi e non lo vogliamo influenzare». 
Gruppi sociali, contesti apertamente di protesta e attivismo politico al centro di una Biennale di Arte contemporanea. Ma l’arte può davvero incidere sulla realtà?
«Spesso ci chiediamo se l’arte può cambiare qualcosa nella realtà. Ovvio che non può farlo da sola, ma è possibile nei termini in cui si condivide una medesima finalità con altri, e con il sostegno di istituzioni o reti sociali. L’arte può proporre un certo cambiamento, che si può compiere solo se  trova un sostegno. Ed è questo che ci interessa dei movimenti Occupy che propongono un cambiamento, e il cambiamento che noi proponiamo ha un senso per loro. Dunque esiste uno scambio già attivo. Da questo punto di vista abbiamo chiesto loro di sostenerci e di potere noi sostenere loro, con l’idea che solo insieme si possa fare qualcosa».

Questa logica di collaborazione ha informato l’intera Biennale?
«Certo, è la stessa logica che ci ha portato a chiedere ad altre istituzioni di sostenere la Biennale, creando appunto dei partner di solidarietà a cui chiedere di unirsi a noi in questo percorso, partendo dalla constatazione che nessuno da solo potrà ottenere il cambiamento, che è fattibile solo se lo vogliamo tra persone che condividono l’idea e si rafforzano a vicenda. Ecco dunque le azioni di solidarietà, come quella intrapresa con l’Istituto Svizzero». 
Nella introduzione al libro “Forget Fear” scrivi che anche tu hai cercato di dimenticare le tue paure, quali sono stati i tuoi principali timori per te che sei un artista, prima di essere un curatore? 
«Sono un artista e mi sono reso conto che in questa occasione avevo la possibilità di criticarla. Da questo punto di vista l’introduzione al libro non è solo un testo, è una lotta con me stesso. Sono stato tentato di non pubblicarlo perché avevo paura di avanzare critiche troppo forti e immeritate verso l’arte, che è anche la mia arte in qualche modo. Peraltro, mi trovo qui a ragionare con la logica della istituzione e confrontarmi con regole che devo tenere in considerazione perché ora sono l’agente della biennale: la rappresento. Sono l’istituzione e ho dovuto fare i conti con le sue paure. Più volte in questo iter preparatorio mi è stato chiesto di fare certe cose in modo diverso e la mia risposta non può essere sempre di rifiuto a priori. Spesso ho avuto paura di essermi spinto troppo oltre i miei limiti. E’ stato un processo lungo e duro».

12 Commenti

  1. E questa sarebbe un’intervista? Io c’ero ieri sera al talk e questa è la conferenza rimaneggiata con domande messe dopo. BRAVI

  2. cara Lara, si…forse c’eri, ma di sicuro con la testa da un’altra parte. per principio detesto le persone che amano la loro evidenza denigratoria. Non sono e non hanno alcuna percezione della creatività e interazione. ottimo articolo,invece. grazie.

  3. Il problema sulla possibile funzione dell’arte oggi, è una questione molto seria. Secondo me è importante che finalmente qualcuno si ponga l’obietivo di intervenire. Se poi l’intevista è fasulla, è un errore che avete fatto. Comunque mi fa piacere sapere che altre persone stiano riflettendo e cerchino delle proposte altenative sul possibile collegamento dell’arte con i gruppi più impegnati a contrastare le soluzioni, proposte da chi non vuole cambiare questo stato di cose che ha provocato la crisi nel sistema economico occidentale

  4. Cara sig.ra Livia, il suo anonimato è indicativo tanto quanto l’inconsistenza totale del suo commento. Il testo pubblicato è la testimonianza di un dialogo interattivo e pubblico a cui Artur Żmijewski si è prestato. Pubblico appunto, fatto di domande e risposte. Nulla di segreto, tutto comprovabile, comprovato e registrato, peraltro, anche dai responsabili della serata. Un incontro importante, che ha chiarito molto bene il progetto sotteso alla 7.Berlin Biennale. Una biennale nuova, rivoluzionaria per alcuni aspetti, che meritava attenzione e notizia. Questa è la notizia. Exibart ha riportato più che fedelmente il contenuto di quanto detto e registrato in occasione dell’intervento del curatore. Il resto sono chiacchiere sterili, inutili,false (insomma tutto ciò che Artur ci ha invitato quella sera a lasciarci alle spalle)ed evidentemente…cara signora Livia, mosse da un’invidia inspiegabile, o forse no?? Buon lavoro

  5. Mi sembra significativo che non risultino artisti italiani invitati alla prossima biennale di berlino. In ogni caso l’arte penso possa essere un “laboratorio-galleria del vento” dove sperimentare strumenti e termometri per ogni ambito. Il punto che Artur sembra non aver capito è che non si tratta di uscire dall’arte per andare incontro ai BISOGNI del mondo esterno (questo lo hanno già fatto, penso a Steve Jobs..) ma stimolare dal laboratorio dell’arte NUOVI BISOGNI per il mondo esterno. Questa è la sfida. La stessa crisi economica si può risolvere non perpetuando modelli di crescita che hanno portato al fallimento ma rinegoziando i propri BISOGNI.

  6. CAMBIARE questo dovrebbe essere un tema reale, invece si gioca al fantapolitico e alle ipotetiche verità mai espresse…

    L’arte (ma non solo) continua a ripetersi per confermare il suo status economico in un sistema che oramai ha già chiarito che l’economia non funziona più …

  7. Giusto doattime,

    la biennale di berlino cercherà di “cambiare il mondo” giocando allo stesso gioco sbalgliato che crea problemi nel mondo stesso.

    L’arte dovrebbe stimolare nuova coscienza e consapevolezza rispetto una rinegoziazione dei BISOGNI/NEEDS. Non può risolvere i problemi, può solo chiarirli all’estermo.

    Attraverso canali “gggiusti” avevo fatto una proposta a Zmijewski che era una missione “casa per casa” finalizzata a rinegoziare i bisogni, ma senza proselitismo teorico ma con esperienze pratiche. Proposta caduta nel silenzio. Invece si cerca di fare un partito politico (si lavora sul piano del mondo sbagliato) si rappresenta uno conflitto storico (teatro, si gioca al gioco del mondo sbagliato ecc ecc).

    Per la prossima Biennale di Venezia ho proposto questo progetto collettivo: http://kremlino.blogspot.it/

    Ma chi parteciperà senza l’invito di Gioni o del curatore “gettonato”? Forse nessuno e sarà interessante e significativo anche questo. Per dire che forse il mondo ha il sistema e l’arte che si merita. Per dire che forse questo è il migliore dei mondi possibili, se nessuno ha alternative concrete o sotiene alternative concrete.

  8. Caro “Luca”,
    son qui a Zurigo e tutto ha un’altra luce,

    I soldi possono tutto perché tutti vogliamo i soldi..

    o forse no?

    ps ho letto il tuo progetto e ti sto preparando un testo

    d.o)

  9. @Do: non è vero che tutti vogliamo i soldi…questa è una banalità enorme. Tutti abbiamo dei bisogni e pensiamo, siamo fortemente convinti, che questi bisogni si possano risolvere con i soldi…che è diverso.

  10. Quindi l’arte è la costruzione di un vibratore?

    No, l’arte può essere gisutamente di tutto e di più. Ma la buona arte (sierra, creed, alys, sehgal, ecc ecc) ci stimola (anche senza vibrazioni) ad una maggiore coscienza e cosapevolezza, cosa che può far godere di più ed anche godere di meno…se ti danno una Formula Uno ti diverti ma puoi anche morire….

  11. La direzione della prossima Biennale di Berlino è chiaramente tracciata da ciò che Zmijewski ha formulato compiutamente già diversi anni fa:
    http://www.krytykapolityczna.pl/English/Applied-Social-Arts/menu-id-113.html
    Dunque, se pur la prospettiva dei ‘bisogni’ da soddisfare vs rimodulare potrebbe essere utile, Zmijewski va molto più in profondità.

    Riguardo ‘L’arte […] non può risolvere i problemi, può solo chiarirli all’estermo’, forse è proprio questo il punto, specialmente riguardo la Biennale di Berlino. E cioè se la prospettiva di Ranciere sia fondata o meno. Noi di Spazi Docili pensiamo di sì.

    Ovviamente, dopo aver posto l’asticella così in alto, riuscirà Zmijewski a portare progetti forti ed entusiasmanti, ad eludere le dinamiche del mercato politically correct che vende l’alternativa’, ad evitare l’autoindulgenza, ad avere un impatto concreto sul reale?
    Lo scopriremo tra qualche giorno…

    http://www.facebook.com/SpaziDocili

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