14 marzo 2012

L’intervista/Doris Salcedo Non c’è arte senza attenzione

 
L’artista colombiana è a Roma per presentare l’opera Plegaria Muda che si inaugura oggi al MAXXI, costituita da 120 tavoli di legno sovrapposti da cui crescono fragili fili d’erba. Vuole ricordare i 10mila giovani deceduti per morte violenta nei ghetti di Los Angeles negli ultimi vent’anni e i 1500 giovani colombiani uccisi tra il 2003 ed il 2009 dall’esercito colombiano. Un’installazione asciutta, imponente. Uno schiaffo all’oblio. L’abbiamo intervistata in anteprima [di Ludovico Pratesi]

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Doris Salcedo concede raramente interviste. Per la sua prima volta a Roma ha fatto un’eccezione. Ecco come racconta il suo lavoro.

Che cosa pensa del rapporto tra l’arte contemporanea e la politica?

«Penso che tutto abbia a che fare con la politica, e che soprattutto l’arte, per la sua capacità di aprire nuovi territori di conoscenza, sia sempre politica. Quando facciamo arte non possiamo evitarla del tutto, anche se in alcuni luoghi del mondo la dimensione politica dell’arte è meno evidente».

Qual è la sua posizione come colombiana?

«Vengo dalla Colombia e non posso evitare la politica. E’ sempre lì e fa parte del quotidiano. La vita di ogni giorno nel mio Paese è politica. E’ come una sorta di capsula, una bolla molto intensa, come in una tragedia, dove si può fare esperienza in maniera molto diretta di molti aspetti della vita umana. Dove c’è violenza politica si vive in una costante tragedia, e tu sei sempre in mezzo alla politica. Ma una politica che non è evidente, ma ambigua e assente. Con il mio lavoro voglio parlare di questa assenza. C’è una meravigliosa frase di Jorge Luis Borges che dice “L’arte è l’imminenza di una rivelazione che non accade mai”. E’ come essere sempre lì, sul bordo di qualcosa che sta per accadere, ma che non accade mai. Un’attesa permanente».

Si considera un’artista politica?

«Molti pensano che io sia un’artista politica, che abbia un messaggio da comunicare. Ma non credo sia vero. In questa installazione, Plegaria Muda, si parla di qualcosa che tutti noi conosciamo, e quindi, come dice Borges, non c’è nulla che debba essere rivelato, perché tutti lo sanno già. L’idea è quella di segnare uno spazio dell’assenza».

Cos’è per lei lo spazio? Una sfida, un territorio, un’idea, un simbolo, un ostacolo?

«Lo spazio è molto importante nel mio lavoro. E’ fatto di tutti questi concetti ed è politico. E’ carico e pesante, mai neutrale. Per me lo spazio è un territorio da occupare, per costruire un luogo per pensare e per riflettere. Nelle nostre città non ci sono spazi pubblici per pensare, e nemmeno privati, perché nelle nostre case siamo sopraffatti dalle piccole problematiche del quotidiano. Vedo il museo come un luogo per riflettere alla nostra relazione con il mondo».

Qual è il suo punto di vista sulla sofferenza e l’emarginazione sociale nel mondo?

«Tutto il mio lavoro è dedicato all’emarginazione, ed in particolare quest’opera. E’ importante perché sviluppa nuove idee sulle vittime, che dobbiamo coltivare perché i codici etici del passato non possono più essere applicati alla gente emarginata. Le vittime hanno già una voce, io cerco di renderle presenti, perché oggi sono invisibili. Io gli do una forza, un’energia che li rende visibili».

Cosa significa esporre a Roma?

«E’ una grande opportunità. Personalmente adoro Caravaggio e Bernini, e lavorare nello stesso posto, poter quindi vedere direttamente le loro opere è un grande privilegio. Mi sento umile davanti al grande patrimonio artistico di Roma, dove faccio il mio lavoro in maniera semplice e tranquilla. Mi piace dialogare con i capolavori: domenica scorsa, dopo un’intera giornata trascorsa al MAXXI per installare il lavoro, ero molto stanca e preoccupata. Ho pensato che dovevo vedere Caravaggio prima di terminare la giornata in albergo. Così sono andata a piedi fino alla chiesa Santa Maria del Popolo, dove, oltre ai due capolavori di Caravaggio: La conversione di San Paolo e La crocifissione di San Pietro, c’era un concerto dedicato al Requiem di Mozart. Cosa poteva essere più perfetto di questa situazione? ».

Quanto è importante per un artista contemporaneo il rapporto con l’arte del passato?

«Per me e nel mio lavoro questo dialogo è stato essenziale. Sto lavorando ad una nuova opera che presenterò alla galleria White Cube di Londra in maggio, e senza L’Estasi di Santa Teresa di Bernini non sarebbe stato possibile realizzarla. Così ho chiesto al mio gruppo di assistenti di andare a vederla, per capirne la forza. Lavoro ad un’opera alla volta, non posso lavorare a più cose insieme. Ne finisco una e ne comincio un’altra».

L’arte contemporanea ha ancora un valore etico e morale nella società globalizzata?

«Bisogna sempre riformulare questo valore. L’arte contemporanea deve rimanere dentro i confini dell’etica, ma ogni artista deve interrogarsi sulla sua responsabilità. Bisogna affrontare temi della violenza e della politica, ma al di fuori delle immagini esplicite. Ogni artista deve sapere esattamente come relazionarsi con queste tematiche, perché i confini sono molto sottili».

Quando l’arte è entrata per la prima volta nella sua vita?

«Ho cominciato a prendere lezioni di disegno a sei anni. Poi sono andata a una scuola d’arte, poi l’università in Colombia e infine un master a New York. Tutta la mia vita è stata dedicata all’arte».

Non deve essere facile vivere a Bogotà.

«Sì e no. Da una parte no, per le difficoltà politiche, dall’altra sei sempre vivo, la gente combatte tutti i giorni, con un’energia e un coraggio molto forti».

Quanto è importante l’attenzione per un artista?

«Tantissimo. E’ la cosa più importante, l’unica davvero importante. Non c’è arte senza attenzione».

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