12 novembre 2014

L’intervista/ Fabio Cavallucci

 
Pecci rehab è il nome provocatorio che diamo a un museo che vuole rinascere. Sotto il migliore auspicio di una cultura del contemporaneo. Ne parliamo con il direttore

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A Milano stamane è stata in scena, con repliche domani sera e venerdì mattina, Suzanne Lacy, nella sede del Pecci in Ripa di Porta Ticinese. L’occasione per vederla dal vivo è con la sua performance Three weeks in may, parte della mostra “Gender Agendas”, comprendente una serie di bei lavori di stampo decisamente politico dell’artista di Los Angeles, che dagli anni ’70 mischia impegno sociale con video, performance, fotografia. Presentata per la prima volta in Italia durante la settimana della performance a Bologna, Three weeks in may è la messa in scena di un’inedita geografia di violenza: per tre settimane nel 1977, appunto, l’artista si rivolse alla polizia della metropoli californiana per raccogliere informazioni sul dove e in che contesto erano avvenuti degli stupri. Su una grande mappa, in ogni luogo del crimine, Lacy apponeva un timbro rosso che riportava la parola Rape (Stupro), contornata da un’altra leggera aura vermiglia (perché statisticamente per ogni violenza denunciata altre nove passano sotto silenzio). La metamorfosi della mappa di L.A., alla fine del progetto, è ovviamente evidente e completamente virata di colore. 
La mostra di Lacy è il primo passo del percorso del nuovo Centro Pecci, che attualmente non ha ancora un programma completamente definito, come ci spiega il direttore Fabio Cavallucci, ma si sta impegnando in maniera piuttosto decisa ad affrontare quelli che sono i “Cambiamenti”, come titolano una serie di incontri affidati ad esperti di diverse materie che assumono in qualche modo il ruolo di “guide” per comprendere il mondo contemporaneo sotto diversi punti di vista. Partiamo proprio da qui.
Suzanne Lacy, Gender Agendas, Museo Pecci - Milano

Quale sarà il nuovo programma del Pecci? A quando una vera e propria riapertura?
«Il tempo che ci divide dal momento della riapertura lo stiamo spendendo per parlare di contenuti, in modo approfondito, a tutti i livelli. Con una serie di lezioni di base che stanno avendo un grande successo e che prendono in esame la storia dell’arte, dell’architettura, della musica, del rock. Nelle scuole di ogni ordine e grado poi, con il gruppo Blitzart e la cooperativa Keras, stiamo mettendo a punto una serie di workshop dove gli operatori, per dimostrare che l’arte è qualcosa che apre la mente su altre materie, e che parla di geografia, società, tecnologie. In più sta per partire un progetto pubblico per Prato. I nostri operatori culturali realizzeranno una serie di happening pubblici, faranno fare un incontro con l’arte a tutti i cittadini che lo vorranno: una sorta di missione per far avere al pubblico una “visione”. Per dimostrare che il contemporaneo non è così lontano, ma spesso vicinissimo alla nostra vita quotidiana. Poi stiamo chiedendo alla città che cosa vorrebbero dal museo, esattamente come con le altre istituzioni toscane che abbiamo finora incontrato. Siamo in un’ottica di ascolto».
Suzanne Lacy, Gender Agendas, Museo Pecci - Milano

Però dopo l’ascolto servono progetti, e per i progetti serve denaro…
«La Regione affiderà per il 2015 al museo un budget di 400mila euro da distribuire ad associazioni, cooperative etc che nell’arco del prossimo anno facciano iniziative di qualità in appoggio alla riapertura del Pecci».
Ma c’è un budget per la riapertura?
«È ancora in costruzione. C’è il Comune di Prato che fa moltissimo mettendo un milione 250mila euro, ma quella che dovrebbe fare di più è la Regione Toscana». 
E dal Ministero?
«Dal Ministero non ci aspettiamo grandi cose. Il resto sarà fatto da donazioni, grants, sponsorizzazioni su cui stiamo lavorando».
Suzanne Lacy, Gender Agendas, Museo Pecci - Milano

Parliamo della sede di Milano, bellissima e spesso un po’ disertata.
«Questa mostra è un tentativo di rilancio di questa sede, con contenuti forti. Si tratta di fare un certo tipo di lavoro».
Ma che identità avrà? Sarà “autonoma” o una dependance di Prato, magari con mostre spezzate su due sedi?
«Autonoma non proprio, resta a gestione del Pecci, sempre in relazione. Qui però si possono fare cose che a Prato non avrebbero la stessa attenzione; mostre più legate ad artisti che – seppur molto conosciuti dagli addetti ai lavori – restano più in ombra per il grande pubblico. A Prato è difficile portarli, mentre si spera che a Milano diventino un po’ più riconoscibili. Ma anche sulla questione dello spazio milanese non abbiamo ancora certezze di continuità. Vedremo con il budget totale come poter andare avanti su questa sede».
Un bel problemino…
«Sappiamo bene dove andare, ma sappiamo anche quali tempi stiamo attraversando. Non è necessario navigare a vista, ma c’è bisogno di usare le possibilità che abbiamo nei limiti che ci vengono consentiti dalla situazione circostante. Non mi spaventa questo, ma non sono più tempi di recriminazione. C’è solo da rimboccarsi le maniche».
Suzanne Lacy, Gender Agendas, Museo Pecci - Milano
Quali artisti sceglierai per Prato e Milano? Ancora molti stranieri o lavorerai con un po’ più di italiani?
«Io credo che il Pecci dovrà anche servire per un parziale, e possibile, rilancio dell’arte italiana. Ho intenzione di fare molto per questo, ma il vero problema è ricostruire in Italia un tessuto che permetta agli artisti di crescere e poi di emergere, perché attualmente questa situazione è stata completamente sradicata. È questo il problema: come contribuire a ricostruire la vita e l’autosussistenza dell’arte italiana».
Suzanne Lacy, Gender Agendas, Museo Pecci - Milano
Parliamo del curatore del Padiglione Italia alla Biennale?
«Questa nomina è stata l’ennesima stupidaggine che anche persone colte come Franceschini continuano a fare per mancanza di conoscenza della materia. Il fatto che si decida di nominare una persona completamente sconosciuta nel sistema dell’arte contemporanea implica due opzioni: o il Ministero ha una conoscenza superiore a tutti gli altri, oppure non ha proprio chiaro nulla. Risultato? Si compiono semplicemente errori, evitabili, ma che scombussolano ancora di più un settore già fragile. Sarebbe bastato nominare un bravo curatore. Ma c’è un altro problema: chi decide questi incarichi? Se vogliamo ristabilire le cose bisogna farlo seguendo Paesi che hanno dimostrato di essere più avanzati di noi in questo campo, istituendo per esempio una commissione e tenere a distanza la politica dalla cultura. Perché queste nomine non fanno altro che far pensare male e non daranno risultati. Questo è ciò che resta, alla fine del “va bene o non va bene”». 

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