07 giugno 2012

L’intervista/Francesco Bonami Anni Settanta, il passato che non passa

 
Con la mostra di scena a Palazzo Reale di Milano, i curatori Francesco Bonami e Paola Nicolin danno l'addio a quel decennio che ha segnato l'Italia recente. Perché si tratta – spiega Bonami – di un passato che si è tramutato in una zavorra. E che invece bisogna gettarsi alle spalle, ma senza rimuoverlo. Scoprendo, anzi, l'arte importante prodotta allora. Tra politica e soluzioni estetiche

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L’impatto visivo degli anni Settanta è inconfondibile e potente. Non c’è decennio che riesca ad eguagliarlo. Ogni immagine di persone, oggetti, paesaggi urbani, architetture e opere d’arte sono immediatamente collocabili. L’arte era una delle componenti di quella rivoluzione d’insieme che, attraversando la società, provocò uno scossone in grado di ribaltare costumi, comportamenti e idee. E Milano era al centro di tutto questo, nel bene e nel male.

La mostra dedicata a quel periodo, ospitata a Palazzo Reale, ci fa percorrere quell’intenso clima, in un’atmosfera che tende più ad ordinare che a trasmettere la forza propulsiva di quegli anni. Tantissimi gli artisti presenti, anche se non tutti tra quelli attivi nel decennio. Ma l’elenco è lungo: sono più di trenta.

Si inizia con la scritta-collage di carta Potere operaio di Nanni Balestrini, si incontra poco dopo la raffinatezza acuta del lavoro di Luciano Fabro, si percorre poi la desolazione di Antropologia riseppellita di Claudio Costa. Poco dopo si viene distratti dal colore della cianfrusaglia del Restourant Spoerri ma, appena si gira l’angolo, si ricade nel plumbeo clima delle fotografie in bianco e nero che ritraggono piazze e cortei. La mostra dal titolo “Addio anni 70 Arte a Milano 1969-1980”, prodotta dal Comune di Milano, è curata da Francesco Bonami e Paola Nicolin. Ce la facciamo raccontare dal curatore fiorentino.

Francesco Bonami, partiamo dal titolo perché quell’addio?

«Credo che sia arrivato il momento di salutare questa epoca storica, che rimane una zavorra per la cultura, la società e l’arte italiana. Addio che non significa dimenticarla, ma vuol dire salutarla per guardare avanti e tenere il bene e il male di quel tempo. Per farla diventare parte della nostra memoria, togliendole quel peso e quelle polemiche costanti con il passato che credo abbiano bloccato lo sviluppo della produzione culturale italiana».

Perché ha scelto la “zavorra” come metafora per definire quel periodo?

«Perché quelli sono stati anni intensi, pesanti, forti che non siamo riusciti a metabolizzare e credo che ce li siamo continuati a portare dietro come una “zavorra”. Penso che ora sia il caso di far cadere nel fondo della memoria quegli anni, facendoli diventare una parte importante della nostra storia, ma senza trascinarli ancora nel presente».


A quali polemiche alludeva prima?

«In quegli anni il mondo si divideva tra buoni e cattivi e ancora oggi si continua a parlare di chi aveva fatto certe cose e di chi non le aveva fatte. Si continua a parlare di quegli anni come se fossero oggi, invece sono passati trenta anni, trenta lunghi anni. Sono successe tantissime di cose e io spero che la mostra possa esser di stimolo per le nuove generazioni, per far capire che c’era una Milano viva, attiva, dinamica e che anche nei momenti di crisi si può essere creativi e propositivi».

Con quali criteri avete organizzato la mostra?

«Abbiamo scavato dentro quel periodo e abbiamo trovato due binari paralleli: uno su cui correva una generazione di artisti che era politica, i fotografi ad esempio non volevano essere considerati artisti, ma giornalisti che documentavano. Parallelamente c’era una corrente invece, tra cui Valerio Adami o Ugo Mulas, che seguivano una ricerca più estetica, più astratta, più leggera dell’altra. Tutti condividevamo lo stesso spazio urbano, la stessa città. Spero che questo emerga dalla visione della mostra perché è questo che abbiamo cercato di far vedere».

Esplorandoli, ripercorrendoli organizzando l’esposizione, ci dica cos’è che germinava in quegli anni che poi, a suo parere, ha dato dei frutti a lungo termine?

«Credo che sia venuto fuori tutto un filone di architettura e design dagli avvenimenti di quegli anni e anche dalle opere d’arte. Con figure come Ettore Sottsass o Alessandro Mendini si è formata una generazione di artisti che ha influenzato, anche a livello internazionale, la produzione artistica».

Come definirebbe questa mostra? A me è sembrata abbastanza complicata.

«Sì, complicata, ma anche molto emozionale. All’inaugurazione ho visto persone emotivamente colpite di ritrovarsi in un periodo vissuto molto intensamente. Per i giovani, per chi è nato alla fine della mostra ovvero negli anni Ottanta, penso che sia si complicata, ma penso anche che questa complicazione sia un fattore positivo, che porti ad incuriosire e a conosce degli aspetti che anch’io, confesso, ho scoperto in questa occasione».

Ad esempio, che cosa?

«Aspetti della produzione di Spagnulo che conoscevo ma non approfonditamente o delle opere importantissime di Claudio Costa che erano state esposte a Documenta nel 1977 e poi dimenticate. Forse è proprio questo l’aspetto più interessante: si possono scoprire tantissimi lavori, importantissimi, che sono stati dimenticati, ingiustamente. E questo è stato l’aspetto più affascinante della strada che abbiamo percorso a Milano dal 1969 al 1980».

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