09 dicembre 2012

L’intervista/Rossana Ciocca Vedi alla voce desiderio

 
Uno spazio che rinasce, trasformato in casa-galleria. A far da traino azioni che hanno raccolto grande seguito a Milano, fondendo ambiente pubblico e dimensione privata. Rossana Ciocca torna in pista nella sua città. Con idee chiare, tanti desideri e la conferma di un impegno verso la giovane arte. Togliendosi anche qualche sassolino dalle scarpe, per esempio su quel "sistema Italia" che non decolla. Non solo nell'arte

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Via Lecco è una stradina un po’ defilata della zona di corso Buenos Aires, a Milano. Al 15 c’è il palazzo che da anni ospita la galleria di Rossana Ciocca, presenza ventennale nell’arte contemporanea italiana, che il prossimo 12 dicembre riapre dopo quasi due anni di assenza dalle scene. Ma Rossana in questo periodo non è stata in vacanza: ha rivoluzionato la struttura fisica della galleria, unendovi anche la sua abitazione privata e rendendo il tutto uno spazio al limite tra ambiente pubblico e privato. Un filo che è ricorso anche  nelle “cene urbane”, all’Arco della Pace, lo scorso 5 luglio, e nel mezzanino del metrò di Porta Venezia, il 17 novembre. Sulla scia delle Dîner en Blanc parigine, e seguendo l’attenzione al dress code in maniera non talebana, Rossana Ciocca ha organizzato le serate milanesi in nome della riappropriazione degli spazi della città attraverso flashmob che spesso sono stati tacciati dai detrattori come occasioni di convivialità radical-chic. Si è trattato, al contrario, di un serissimo gioco in grado di mettere in atto non solo creatività, ma anche volontà e, soprattutto, responsabilità, con il pubblico chiamato a prendersi cura di tutto: dalle proprie vettovaglie alla pulizia finale del luogo designato per l’happening. Ed è seguendo questi fili che abbiamo chiesto alla gallerista di raccontarsi in esclusiva per Exibart. In attesa del ri-opening.
12-12-12. Una data quasi magica. Non hai paura della fine del mondo o apri proprio perché bisogna in qualche modo “partecipare” alla profezia Maya che stabilisce il “the end” nove giorni dopo?
«Posso essere sincera e dirti che non ci avevo pensato! In ogni caso il 12 è il più piccolo numero semi perfetto, le sue proprietà matematiche e simboliche sono tantissime, e visto che fra l’altro rappresenta simbolicamente il cambiamento verso l’età adulta potrei azzardarmi a dire che forse è una bella data per cambiare. Con o senza calendario Maya».
Riapri, dopo oltre un anno di pausa, in coda al periodo più nero in fatto di economia, non solo dell’arte. Forse qualcuno potrebbe pure dire che stai compiendo un gesto avventato. Cosa risponderesti?
«Risponderei che riapro dopo due lunghi anni in cui la mia vita privata e pubblica sono state scagliate nell’inferno più nero. Torno ad essere progettuale e questo mi basta. La crisi c’è ed è la logica conseguenza della speculazione precedente, il problema è che il crollo è sempre più repentino del rialzo, come per un palloncino che si sta sgonfiando e che non segue una traiettoria precisa, ma io provo a pensare che nella vita ho esposto più di un palloncino, e uno di questi tiene testa alla speculazione».

Sei una gallerista di lungo corso. Che cos’è cambiato nell’attenzione del pubblico in questi anni anche rispetto al collezionismo, alla gestione di una galleria?
«È cambiato tutto. Quando ho iniziato a lavorare il sistema dell’arte era estremamente colto anche se di nicchia, mentre in questi vent’anni abbiamo cercato di adattarci ad un sistema internazionale senza veramente capirne le regole, distruggendo quel poco che avevamo costruito. Il collezionismo si scopre oggi in continuo bilico fra crisi dei mercati, controlli fiscali senza reali regole e risultati economici ottenuti dalla speculazione precedente, disarmato e consumato. Le istituzioni pubbliche si trovano con i fondi necessari azzerati, immobilizzati nelle possibilità di qualsivoglia progettualità reale. La stampa recensisce solo i grandi eventi, senza la minima attenzione al lavoro continuativo di molti, come d’altra parte avviene per molti settori della cultura italiana. Difficile in un panorama come questo che l’attenzione del pubblico sia alta! È un po’ come se fossimo diventati la caricatura di noi stessi: seguitiamo a non voler modificare la nostra cosiddetta “identità”, per paura della perdita. Noi galleristi, così come tutti gli altri operatori del settore, dobbiamo forse  tornare a rivedere le modalità di lavoro e capire cosa lasciare andare e cosa trattenere all’interno delle nostre esperienze, così da riattivare nuove energie, più adatte al contemporaneo».
  

Apri con una mostra che mette in scena il concetto di desiderio: qual è il tuo più grande desiderio?
«Desidererei ascoltare qualcuno che abbia voglia di venire a vivere e lavorare nel nostro Paese, invece che sentir solo parlare di fughe all’estero: un desiderio semplice, ma di difficile realizzazione».
E cosa desideri per Milano, la tua città?
«Desidererei vivere in una città contemporanea, immaginando che ciò significhi progettare qualcosa (fatto da noi) che possa contribuire a costruirla e a migliorarla. Nel ultimo secolo l’iperprotezione maniacale e la costante  preoccupazione per le masse ha reso cieca la progettualità per il pubblico: dobbiamo quindi tornare imparare ad accettare qualunque cosa cresca (vita) ed abbandonare ciò che non funziona più; mi auguro che questo cambiamento avvenga e passi attraverso l’unica rivoluzione possibile: quella per la bellezza».
Questa domanda te la faccio perché voglio andare a parare su un altro punto: le cene-flashmob che hai organizzato negli ultimi mesi in versione candida all’Arco della Pace e in tenebra nel mezzanino del metrò di Porta Venezia. Sembrerebbe un’attività un po’ insolita per una gallerista, ma hai parlato più volte del lato “pubblico” che contraddistingue anche il tuo passo di ricerca. Come ti è venuta l’idea di importare a Milano il format parigino? Che cosa si è messo in scena, secondo te, durante questi due appuntamenti?
«In questi ultimi anni, a partire dall’esperienza della mostra di Wolfgang Weileder sul Diurno di Porta Venezia a Milano, ho spostato sempre più la mia attenzione verso lavori di natura territoriale: trovo sia più semplice raccontare al pubblico un lavoro quando si adatta ad una realtà più vicina al visitatore e alla sua storia. Ed è estremamente stimolante confrontarsi con un pubblico non solo di addetti ai lavori, sia nei termini della comunicazione dell’evento che nella realizzazione dello stesso. La cena nasce dall’idea di voler raccontare attraverso nuove regole un modo diverso e maggiormente consapevole di vivere la relazione con gli spazi pubblici: “Abitare è essere ovunque a casa propria”, omaggio al lavoro di Ugo la Pietra, è stato il motto della prima cena. Riappropriarsi dei luoghi e viverli, come atto di consapevolezza dell’essere cittadini in grado di spostare le proprie esperienze al di la degli “schermi” imposti. La prima cena, “la bianca”, aveva un ricettario emotivo, al posto degli ingredienti scoprivi regole emozionali da condividere».

Che cosa hai imparato da questa esperienza?
«Da una parte mi sono resa conto di quanto le persone, oggi, abbiano bisogno di condividere le esperienze e dall’altra,  quanto la comunicazione stia cambiando: spazio pubblico e privato si stanno fondendo grazie a tutti i nuovi social network. Come sostiene Steven Holl il valore dell’esperienza urbana non può essere completamente razionalizzata e deve essere compresa soggettivamente, sensorialmente e percettivamente, così come per un opera d’arte. Sono alla ricerca costante di nuove strategie per raccontare il fare arte, la galleria d’arte è una struttura vecchia in alcune parti perché chiusa nei suoi quattro confini. Nel progetto “Wish” di Kensuke Koike, con cui inauguro la stagione, abbiamo ad esempio lavorato ad un blog http://wish-project.tumblr.com nel quale punto per punto l’artista ha sviluppato e raccontato per immagini il suo processo creativo fino alla realizzazione della mostra. Per dirla con Nicolas  Bourriaud, cerco di essere un “radicante”, cioè un ormone della crescita. Il radicante è composto da tre parti distinte: la prima affronta il soggetto in maniera teorica; la seconda consiste in una riflessione estetica a partire da opere d’arte recenti; la terza estende il pensiero radicante ai modi di produzione della cultura, poi ai modi in cui viene consumata e usata. Tutto qua!»

Ci dai qualche anticipazione sul nuovo futuro della Galleria Rossana Ciocca? Hai fiere in programma? A proposito, cosa pensi delle fiere, visto che è uno degli argomenti più battuti delle ultime stagioni?
«Non partecipo a fiere da molto, sono carissime per una come me che lavora solo con giovani,  trovo la fiera e la grande esposizione “universale” ormai un concetto appartenente al secolo scorso: dovrebbero in qualche modo svecchiarsi cercando di lavorare maggiormente sulla conoscenza del territorio da parte di collezionisti e curatori internazionali come fu per Artissima durante la gestione Casiraghi. Le fiere sono e restano un argomento dibattuto perché in Italia abbiamo puntato tutto su di loro per la costruzione del mercato dell’arte, ma direi che possiamo serenamente affermare che non siamo neanche stati in grado di costruire una fiera che possa lontanamente avvicinarsi alle fiere internazionali».

Ultima domanda: quali sono gli artisti che ti convincono di più in questo periodo? Su chi scommetteresti come gallerista?
«Resto da sempre una grande sostenitrice della qualità dei nostri artisti e mi domando ogni volta come succeda che siamo gli ultimi ad accorgercene. A parte questo direi che il modo più giusto per scoprire su chi scommetterei è venire a trovarmi in galleria».

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