13 settembre 2004

Nuovo Osservatorio Arte. In Corea

 
Per la Biennale di Gwangju, in Corea, pubblico, artisti e curatori s’incontrano. Lavorando fianco a fianco, scambiandosi ruoli e punti di vista. Un piattaforma di scambio e interazione e internazionale. Per ripensare lo stato dell’arte attuale. Roberto Pinto, a rappresentare l’Italia tra i curatori, ci racconta questa esperienza. Tra workshop rigorosamente senza addetti ai lavori e Guerra Fredda. Dal 10 settembre, dall’altra parte del mondo…

di

Questa biennale ruota intorno a una questione principale: la ridefinizione del rapporto tra spettatore ed artista. Quali dinamiche si sviluppano, all’interno della mostra, tra artisti, pubblico, curatori?
Siamo partiti proprio da questa questione aperta, ma invece di porci all’inizio il problema di chi invitare, abbiamo organizzato un workshop con circa sessanta persone provenienti da tutto il mondo (chiamati viewer-partecipant). Gente qualsiasi, che fa lavori di ogni genere e che non è coinvolta nell’arte. Volevamo capire quali erano le aspettative rispetto all’arte, quale ruolo le attribuivano, e se la consideravano in grado di cambiare la vita quotidiana. Naturalmente abbiamo raccolto idee e proposte contraddittorie, ma a partire da quelle abbiamo iniziato il nostro lavoro, cercando di trovare degli artisti che fossero in grado di rielaborare gli spunti trovati e di aprire un dialogo con queste persone. Solo allora abbiamo chiesto agli artisti di elaborare o scegliere un’opera per la Biennale.

Parliamo del titolo. A grane of dust, a drop of water rimanda agli elementi base della natura, al ciclo della materia. Anche quest’immagine è legata all’idea di transito, di un nuovo possibile ordine delle cose?
Questo è l’altro punto caratterizzante la Biennale, ma, in un certo senso, è legato al precedente proprio perché si parla di combinazioni, della capacità rigenerativa della natura stessa, di collaborazioni tra elementi diversi. Leggendo questo titolo in chiave ecologista non si può non vedere come solo prendendoci cura degli elementi base della nostra esistenza possiamo sopravvivere. Altrettanto legittimo è il richiamo a un modo di intendere il mondo che ha delle profonde radici nella cultura buddista.

Biennale Gwangju
La difficile situazione politica della Corea gioca probabilmente un ruolo importante in un questo tipo di riflessioni…

Infatti la Biennale di Gwangju nasce nel 1995 con delle premesse storiche importanti, come ricordo di alcune delle repressioni del 1980, che hanno iniziato il processo di democratizzazione della parte sud della penisola (governata da una dittatura fino al ’92). Una specie di monumento e, allo stesso tempo, un modo lungimirante per riconnettere una cultura con un dibattito internazionale, negatole fino ad allora. La manifestazione è stata così importante per la Corea che la prima edizione ha oltrepassato quota un milione e 600 mila persone, per poi stabilizzarsi intorno ai 600/700 mila. Ovviamente la situazione attuale è ben diversa da quella all’inizio degli anni Novanta, anche se resta uno dei pochi luoghi al mondo (forse l’unico) dove la Guerra Fredda ha ancora un’importanza storica.

Il tentativo di ricercare un nuovo rapporto arte – spettatore si pone qui anche come possibile modello per le biennali e le grandi mostre d’arte contemporanea? Qual è, secondo te, una formula vincente per ripensare le kermesse internazionali d’arte?
Penso che le biennali, per dimensioni e anche per “statuto”, non debbano essere delle semplici mostre ma debbano cercare di cogliere i problemi, le emergenze del momento in cui si svolgono. Devono mostrare il contemporaneo così come si va delineando, correndo il rischio di sbagliare e di non creare una situazione e un percorso uniforme (elementi che vengono richiesti a una “semplice” mostra). Credo che dovrebbero essere dei laboratori del pensiero in grado di fare da apripista ai possibili sviluppi dell’arte stessa. Allo stesso tempo non credo alle formule, soprattutto non credo che ci siano formule che vadano bene in ogni situazione. A Gwangju abbiamo cercato di intavolare una discussione il più possibile aperta sul modo di produrre degli artisti e sul modo di recepire un grande evento. La nostra ipotesi prevedeva, già in partenza, anche un certo grado di fallimento, proprio perché volevamo calarci in una realtà e provare a praticarla senza creare delle situazioni ideali.

Biennale Gwangju
E cosa è che non ha funzionato?

Accanto ad alcuni lavori di artisti che hanno pienamente collaborato (addirittura a volte costruito il lavoro) con il viewer-partecipant, ci sono stati dei rapporti che non hanno affatto funzionato (come accade nella vita quotidiana) e in cui è prevalso il reciproco ignorarsi.

Ma comunque questo, a livello espositivo, non si ‘vedrà’ in mostra
Infatti per i visitatori della mostra non è detto che i progetti più “collaborativi” siano poi più interessanti degli altri. Insomma, non credo che questa sia una formula applicabile, ma credo che sia un esperimento interessante, che lascia la discussione aperta e che tenta di analizzare più a fondo lo stato attuale dell’arte.

Ci sono molti curatori che hanno lavorato alla Biennale di Gwangju. Parlaci del modo in cui avete interagito e organizzato la struttura della mostra…
La Biennale ha una struttura che vede un direttore generale, Yongwoo Lee, a cui si deve l’idea della Biennale stessa e la scelta degli altri componenti dello staff. Lui ha diretto (e fortemente voluto) anche la prima edizione del ’95. Per la Biennale del 2004 ha scelto due direttori artistici, Kerry Brougher e Suk-won Chang, e quattro assistent curator, Milena Kalinovska, Chika Okeke, Won-il Rhee ed io. Ognuno dei curatori, pensando al tema, ai viewer-partecipant, ha fatto una serie di proposte che sono state analizzate collettivamente e da queste è venuta fuori la lista dei partecipanti. Il rapporto è stato molto fluido ed ognuno portava alla discussione quelle che erano le proprie competenze.

Tu su cosa hai focalizzato essenzialmente?
Ho naturalmente seguito più da vicino la parte europea, ma è stato abbastanza sorprendente anche vedere quanto interesse ci fosse (e anche competenza) a proposito del panorama europeo in generale e di quello italiano in particolare. Naturalmente in mostra non ci sono divisioni geografiche ma si è cercato di creare delle aree omogenee, cercando di disporre i lavori degli artisti seguendo delle suggestioni dedicate, nelle quattro diverse gallerie, all’acqua, alla polvere e alla combinazione di acqua più polvere.

Qual è il range di artisti presenti? Età, nazionalità, generi di ricerca… che panorama avete voluto presentare?
Credo che il range sia molto vario sia per quanto riguarda nazionalità, che età o generi di ricerca. Ci sono grandi maestri come Richard Hamilton, Ed Ruscha, Gerhard Richter o Jimmie Durham ad artisti di una generazione più giovane come Tatsuo Miyajima, Waltercio Caldas, Anish Kapoor, fino ad arrivare a un gruppo di artiste australiane giovanissime come le Kingpins, passando attraverso artisti ricercatissimi in tutte le Biennali come Kendell Geers, Pierre Huyghe o Jennifer Allora & Guillermo Calzadilla. Biennale Gwangju

Lo scopo, insomma, non era quello di cercare il nome da scoprire, o da lanciare sul mercato…
Esatto, abbiamo cercato essenzialmente di ragionare su quali artisti potessero rispondere in modo appropriato alla formula particolare che avevamo adottato.

Stando in Corea per preparare la mostra che idea ti sei fatto dello scenario della giovane arte orientale?
Da quello che ho visto mi sembra che la scena sia molto interessante sia dal punto di vista artistico che strutturale. Ci sono molti artisti pienamente coscienti del proprio lavoro e della realtà internazionale e, allo stesso tempo ci sono numerosi appuntamenti internazionali: oltre la Gwangju Biennale, c’è una Biennale anche a Busan (che ha appena aperto in agosto) e a Seul ci sono decine di musei pubblici e privati, grandi e piccoli, dedicati al contemporaneo, alcuni dei quali di livello. Tra gli eventi collaterali alla Biennale c’è la mostra Korea express, che presenta una trentina di artisti coreani, molti residenti all’estero.
Per certi aspetti siamo di fronte, come in qualunque altra parte del mondo, ad artisti che adoperano più o meno lo stesso linguaggio internazionale. Stando più a contatto con la realtà coreana e dovendo costruire una mostra complessa come una Biennale, si scoprono però punti di riferimento, modi di concepire il lavoro e di prestare attenzione ai particolari, molto diversi da quelli che applichiamo noi.
Se ci riferiamo al presente (senza voler scomodare per esempio Nam June Paik), oltre Kim Sooja -che ha più volte esposto in Italia e che a giugno ha inaugurato una bella mostra al Pac di Milano – credo ci sia un panorama molto interessante.

Qualche nome?
Jeon Joonho e Kyung Ho Lee sono, ad esempio, artisti che potrebbero trovare il loro spazio in qualsiasi mostra internazionale.

a cura di helga marsala


The Gwangju Biennale
A grane of dust, a drop of water
10 settembre/13 novembre 2004
Città di Gwangju (sedi varie), Sud Corea
Web site: http://www.gwangju-biennale.org
E-mail: biennale@gb.or.kr
Tel 82.62.608.4114


[exibart]


5 Commenti

  1. ma allora exibart lancia il sasso e ritrae la mano! insisto: perchè non dite, o domandate, a Pinto com’è accettabile che un’artista del tutto ignorata come Annie Ratti sia presente a Gwangju? Forse perchè la stessa Annie Ratti l’ha invitato a sostituire Angela Vettese presso la propria fondazione di Como? Vergogna. almeno abbiate il buon gusto e l’onore di fornire spiegazioni.

  2. Non c’è bisogno di exibart per dare spiegazioni ai soliti commenti frutto della solita invidia che rode e che porta a giudicare con maliziosità. E poi sempre sta storia della ratti! Ragazzi miei perchè nn vi rimboccate le maniche e iniziate a lavorare?
    Cosa significa artista “ignorata”? Dobbiamo seguire il trend dominante e chiamare artisti teen ager e super quotati dai brooker dell’arte contemporanea? O magari cercare di ragionare sui lavori? Un curatore ha il sacrosanto diritto di lavorare e chiamare quegli artisti che meglio crede idonei al progetto espositivo.

  3. no, forse giorgio non hai ben inteso: Annie Ratti è la presidente della Fondazione Ratti. e non solamente un’omonima comasca. Lei invita Pinto a curare il Corso Superiore d’Arte Visiva, e Pinto invita Lei alla Biennale? Stai scherzando? Se non è conflittuale e pieno d’interesse questo evidente scambio di piaceri…io invito te e tu inviti me…dai… o sei ingenuo o fai finta di esserlo.

  4. Caro Pinto, se sei buddhista
    perché non te ne vai in giro ad elemosinare con una ciottola in mano?
    oppure trovati un lavoro, prova a pubblicare un libro……
    Così in queste mostre non ci ritroveremmo sempre con gli stessi nomi!
    E oltre alla Ratti c’è anche qualcun altro
    che di occasioni ne ha avute già più che abbastanza……

  5. Basta con questa menata del conflitto d’interesse…solita mentalità sinistroide e massificata! In italia si accusa il conflitto d’interesse solo quando non si è direttamente coinvolti in prima persona a ricavarne dei vantaggi. E su dai, un po’ di onestà :O)…ammettiamolo!

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui