25 gennaio 2011

OMAGGIO A OPPENHEIM

 
Terra alla terra. Con questo titolo abbiamo dato la tristissima notizia della morte, avvenuta sabato scorso, del gigante americano Dennis Oppenheim. Con lui se ne va un pezzo fondamentale della Land Art. Un pezzo fondamentale dell’arte contemporanea. Il ricordo lo affidiamo alle parole di Alberto Fiz, che con lui ha firmato due importanti mostre in Italia...

di

Con Dennis
Oppenheim
è scomparsa una parte dell’America, quella più libera,
controcorrente, romantica, on the road,
lontana da ogni regola di squadra o di mercato.

L’artista americano è stato uno dei più geniali
sperimentatori del dopoguerra e, sin dalla seconda metà degli anni ‘60, ha
avuto un ruolo fondamentale in esperienze come la Land Art, la Body Art, la
Public Art e la Social Art. Lui, però, non si mai identificato in nessuno di
questi movimenti, che spesso ha contribuito a creare: erano semplici tappe di
un viaggio senza fine che non doveva in nessun modo trovare una formalizzazione
definitiva. Altrimenti tutto si sarebbe risolto in un inutile accademismo
stilistico. Cosa che Dennis detestava più di ogni altra cosa, sfidando se
stesso e le sue creazioni.

Era nato il 6 settembre 1938 a Electric Ciy, una città
fantasma nello stato di Washington dove il padre ingegnere era stato trasferito
per costruire una diga. Lì erano alloggiati tecnici e operai che, terminato il
lavoro, se ne tornarono nelle loro case. Quel luogo che non compare sulle carte
geografiche è, in fondo, la metafora di un artista che si è identificato nella
componente transitoria della realtà, senza mai scegliere la sfera ideologica o
dogmatica.

La
sua opera ha rappresentato una sfida continua dei limiti e delle regole dove
l’esperienza viene messa continuamente in discussione, destabilizzando
qualunque certezza.

Oppenheim non hai mai cercato l’oggetto in sé, ma la sua
trasformazione, interessandosi del processo entropico.

Sin
dagli esordi, prende le distanze dal Minimalismo e da un’ipotesi esclusivamente
analitica. La sua è una progressiva acquisizione di dati dove la materia non
subisce l’isolamento dal contesto ma viene arricchita da nuove, imprevedibili
implicazioni che ne accentuano le potenzialità al di là della stessa natura.

Dennis Oppenheim - Theme for a Major Hit - 1974 - veduta dell’installazione presso la Galleria Fumagalli, Bergamo 2010
Esploratore infaticabile, Oppenheim ha ricalcato
l’immagine dell’artista rinascimentale all’interno di uno spettro d’indagine
che coinvolge indistintamente stili e linguaggi differenti, dal video alla
fotografia, dalla scultura al disegno, dalla performance all’installazione,
considerati come semplici strumenti per un progetto ben più ambizioso di arte
totale riassunto nell’utopia concreta di un unico creatore.

Lui non ha operato sullo spostamento duchampiano, ma,
piuttosto, sulla devianza, sulla disfunzione e sulla dissonanza creando, per
ciascun lavoro, un sistema linguistico autonomo che evita la ripetizione o la
mercificazione.

Alterazione e metamorfosi sono termini con cui si può
definire l’indagine dell’artista americano che, attraverso i suoi lavori,
sviluppa un’instabilità permanente dove la creazione non è mai statica, bensì
dinamica.

Il gesto più semplice e radicale è quello di mettere il
mondo sottosopra come avviene in una delle sue installazioni più emblematiche, Device to Root Out of Evil del 1997,
dove l’abitazione appare come una galassia proveniente dal cielo che atterra
sulla propria punta. La casa compare costantemente nella ricerca di Oppenheim,
che la rende partecipe della nevrosi collettiva in un continuo processo di
antropomorfizzazione.

Dennis Oppenheim - Church - 1989 - modello in legno
Come
ho scritto in altre occasioni, “Oppenheim
determina una destabilizzazione che conduce al punto di fuga, al vanishing
point e in tal senso lo si può senza dubbio annoverare tra gli anticipatori del
decostruttivismo affermatosi in Europa e negli Stati Uniti a partire dagli anni
ottanta grazie all’indagine di architetti come Frank O. Gehry, Daniel
Libeskind, Peter Eisenman e Zaha Hadid
”.

Di
tutto ciò l’artista americano è consapevole sin dal 1968, quando i suoi primi
lavori di Earthwork sono legati alla
decomposizione e alla dematerializzazione. Nei suoi Gallery Decomposition la galleria presenta la propria composizione
materiale ridotta agli elementi primari di calce e cemento, trasformando il
cubo bianco in un luogo di energia ma anche di vaporizzazione dove il
contenitore e il contenuto tendono a coincidere.

Proprio
Material Interchange è stato il
titolo che io, insieme a Dennis, avevamo voluto dare alla sua mostra di opere
storiche organizzata lo scorso anno alla Galleria Fumagalli di Bergamo, che
purtroppo si è rivelata essere la sua ultima esposizione in Italia.

Le conseguenze della sua indagine sono ancora in buona
parte da indagare e troveranno una perfetta applicazione all’interno di una
società caratterizzata da continui spostamenti dei confini storici e
territoriali.

La prima conferma arriverà in estate dalla mostra che
stava preparando con lui il suo amico e grande conoscitore Lóránd Hegyi al museo d’arte moderna di Saint-Etienne. Un
progetto ambizioso ed elaborato che diventerà inevitabilmente il primo omaggio
a Dennis.

Dennis Oppenheim - Electric Kisses - 2009 - acciaio inossidabile, tubi colorati in acrilico, fermagli
In una sua celebre installazione, Stage Set for a Film, la facciata di un ipotetico set
cinematografico nasconde una casa periferica con i suoi abitanti che interagiscono
con la fiction inglobando la scultura
nell’elemento reale. Gli Splashbuilding
appaiono, invece, come esplosioni molecolari che prendono spunto dalla caduta
della goccia d’acqua. Un processo semplice che determina la complessità, come
il celebre battito d’ali di una farfalla. Ebbene si tratta di efficaci
rappresentazioni di quel mondo ibrido e biomorfo a tratti fantastico che tanta
parte ha avuto nell’indagine di Oppenheim.

Lui
ha partecipato senza nostalgia e senza rimpianti all’incidente del futuro,
dando vita al suo Alternative Landscape,
titolo di una delle grandi installazioni esposte nel 2009 al Parco Archeologico
di Scolacium nell’ambito della quarta edizione di Intersezioni, il progetto di scultura da me curato che lo ha visto
protagonista. In quel caso, la neo Land Art inserita all’interno degli antichi
reperti romani e bizantini prevedeva una natura geneticamente modificata di
straordinario impatto emotivo. Il fatto che le sue opere agissero direttamente
sul paesaggio era per lui determinante in base a una ricerca che non si
limitava alla produzione di oggetti ma aveva lo scopo dichiarato d’interagire
con gli osservatori. Per lui la Public Art era il superamento di un’esperienza
troppo ingombrante come la Land Art: “Allora
gli interventi sul paesaggio erano una provocazione intellettuale. Ora
l’artista, così come l’architetto, può modificare concretamente il territorio
”,
affermava con quel suo caratteristico sorriso malinconico e ingenuo.

Dennis Oppenheim - Material Interchange - veduta della mostra presso la Galleria Fumagalli, Bergamo 2010
Se negli anni ‘60 Oppenheim interveniva sull’epidermide
della natura, nell’ultimo ventennio ha identificato il proprio paesaggio
parallelo e visionario ampliando lo spettro d’azione in un contesto che non ha
pregiudiziali di sorta e può spaziare da Bernini
a Brancusi, da Gehry a Disneyland, da Gaudí
al deserto del Nevada.

In oltre quarant’anni di carriera, Dennis non ha mai avuto
paura di volare confrontandosi perennemente con l’inatteso e il perturbante. La
morte l’aveva già messa in conto, ma per lui era sin troppo prevedibile.

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alberto fiz

[exibart]

 

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